La “mano invisibile” è la bellezza

(Anche se, forse, non salverà il mondo)

Foto di Mark Neal | Pexels

«L’Italia è tutta bella». Lo si sente dire ed è probabilmente vero. Più vero sarebbe dire: «In Italia, il grado medio della bellezza è superiore rispetto a quasi ogni altro Paese». Perché, in Italia, ci sono pure i posti brutti. Mi ci sono fermato, in uno di questi posti brutti, quasi per caso, risalendo in auto la Penisola. Il mare era fuori portata, esclusa la luce marina, distratto il profumo di iodio, tolto il sentimento del mare. Niente profili aguzzi di montagne d’altra parte, né colline, col loro orizzonte pallido e acquoso. Niente laghi, che pure in Italia rischiarano il paesaggio fin dentro certe lande che, se invece che in Italia fossimo in Polonia (si fa per dire), sarebbero depressioni desolate. Era metà luglio e siccitava. C’era una pianura polverosa e una strada affogata nella callara di un sole perpendicolare. Piante poche, alberi nessuno. In quella specie di Libia o di Messico – se è vero che in Libia e in Messico ci sono posti così, come ce li fanno vedere nei film – sono sceso dall’auto per un caffè. Al banco, una barista gentile ha posato la tazzina piena per tre quarti – lo prendo sempre molto lungo l’espresso – sul piattino bianco. L’ha fatto con grazia e senza rumore, e nel farlo ci ha aggiunto perfino un piccolo sorriso, un sorriso di cordialità campestre, senza malizia. Ho pagato un euro il caffè, due e cinquanta una piccola bottiglia d’acqua, ho salutato, sono andato via.

credit: Pixabay

Ha finito di bruciare quel luglio canicolare e poi è scorso l’agosto afoso, settembre è passato che pareva giugno e ottobre ci ha portati le allergie e i tepori di maggio. Abbiamo chiuso l’estate con l’emozione dei primi bagni – che erano, però, gli ultimi. A novembre, prima parte, e cioè prima che l’autunno venisse giù, sono stato a Venezia. Seduto a un tavolo nella piazza, da una parte San Marco, col campanile che gettava ombra quasi fosse una meridiana e ronzio di turisti sciamanti accanto a fitte code immobili e composte, dall’altra e sul fondo un filare di gondole beccheggianti e l’isola di San Giorgio Maggiore, ho chiesto un caffè – «un espresso molto lungo, per favore». L’ho bevuto dopo cinque minuti, appena meno che freddo, servito con velocità gentile e concisa, ma senza grazia e con qualche sottinteso di scomodità, perfino, che mi ha indotto a far presto. Otto euro e niente sorrisi. Versati alla consegna, per tema che me ne andassi impagato. Cinque minuti l’attesa più uno e mezzo la beva: sette meno meno per guardarsi intorno. Però, bella – accidenti! – questa piazza. Belle le gondole, lunghe distese dietro le bitte, a far da scenografia! Ci sono milleduecento anni di devozione, di contese, di sotterfugi, di incendi, di ammazzamenti e di lavoro qui, attorno alle reliquie di San Marco: dai giorni di quel doge che promise di far erigere una chiesa degna delle spoglie dell’Evangelista fino a ieri. Fino a oggi, anzi, a stamattina, quando hanno riacceso i ceri e riaperto il portale con la doppia gorgiera dei mesi e dei mestieri per lasciar passare i turisti sotto gli squeraroli, i vinai, i fornai, i macellai e i lattieri. I fedeli se ne vanno di lato, sul fianco; passano dai Leoncini e anche lì c’è coda, tra i più che vanno ad ammirare e i pochi a pregare. Ci sono le colonne, il Museo col nome di una famiglia che diede alla città e alla Chiesa patriarchi, ambasciatori, cardinali e addirittura un papa, lo scorcio del Palazzo Ducale, San Giorgio di marmo svettante sull’isola verde-golf, oltre questo braccio di laguna e il via vai di vaporetti, delle chiatte, delle gondole, dei Riva, di legno caramellato, tenuto a lucido a colpi di cera e gomito. C’è la bellezza. E non è vero che la bellezza è gratuita – cioè, a guardarla lo è, per ora ancora lo è, lo è per fortuna abbastanza – se il mio caffè, non migliore dell’altro e senza sorriso, l’ho pagato sette euro di più. Venezia, insomma, vale il settecento percento.

Foto di Nikolaj Erema | da Pexels

«È la bellezza che aggiunge valore al caffè» penso, camminando affianco del Ponte dei Sospiri per scendere poi verso Riva degli Schiavoni. È la bellezza che ci fa ricchi. Non è chimica la bellezza: qui si crea, qui si distrugge. Si crea, reagendo la bellezza, il plusvalore. È la bellezza la “mano invisibile” e ogni giorno, per ogni caffè, regala 7 euro al Caffè Florian, mentre io e altri come me e come te facciamo la fila per pagarli, abbacinati dagli ori, dalla luce, dalla pietra, frastornati dalla ricchezza delle millenarie generazioni di dogi e senatori e intraprendenti mercanti, con l’Oriente che sembra lì dietro, oltre il balzo di Marco Polo, e l’ambra e la seta e il benzoino e i nomi magici delle città tra le cui mura si rifugiavano le carovane e i porti degli Arabi e quelli dei Cinesi e Bisanzio, che non c’è più, e i suoi cavalli rapiti che Napoleone rapì (e il Canova fece restituire)… Qui c’è la storia, qui c’è la bellezza: è la bellezza che aumenta il valore del caffè, della pizza, del panino imbottito (e non si dice di cibi più raffinati). La bellezza è la “mano invisibile” e meglio ancora quando sorride – ma qui è così tanta che nemmeno ci prova né fa lo sforzo. Il sorriso qui è un optional, una confidenza inutile dove tutti fremono e stanno un giorno appena e strusciano le suole sui moli fino a consumarli. Vale quanto lo zucchero nel caffè. Si paga uguale, con o senza. Non c’è bisogno di grazie riscattatorie. Io le vorrei anche qui e mi manca quell’altro sorriso donato, frugale e messicano. Eppure come gli altri, come i giapponesi cortesi e compunti e come gli americani che zonzano con le bottiglie d’acqua in mano, afflitti da una sete penitenziale, anch’io pago quasi volentieri le gondole e l’isola, i mosaici di Bisanzio, i cavalli imperiali. [stefano.termanini@gmail.com | 2.1.2023] [continua in una prossima puntata…]


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