A San Salvatore Monferrato inaugurato il Fondo librario “Giorgio Cavallini”

Sabato 26 settembre 2020, presso la Biblioteca Civica Fava di San Salvatore Monferrato, è avvenuta l’inaugurazione del Fondo librario “Giorgio Cavallini”.

Il fondo, della consistenza di alcune migliaia di volumi, è appartenuto a Giorgio Cavallini (1928-2018), illustre studioso e professore di Letteratura italiana presso l’Università di Genova. Il professor Cavallini, che è stato ricordato durante l’incontro, nelle sue volontà ha disposto che i suoi libri fossero donati a collezioni e biblioteche in grado di renderli disponibili al pubblico dei lettori e dei giovani (che egli come docente aveva a cuore) in particolare modo.


Dopo un’introduzione del Sindaco di San Salvatore Monferrato Enrico BECCARIA, è intervenuto Stefano TERMANINI, editore e amico del professor Giorgio Cavallini, di cui ha tracciato un breve profilo “non tanto come illustre docente e studioso di letteratura italiana, ma come uomo e come amico”. Il professor Elio GIOANOLA, già collega di Giorgio Cavallini presso la stessa Università di Genova, anch’egli illustre studioso e scrittore, ha parlato di Giorgio Cavallini collega e studioso. Barbara GUGLIELMO di Giorgio Cavallini ha ricordato la grande umanità e signorilità. Infine, Massimo MEATTINI, avvocato, allievo della prima ora di Giorgio Cavallini, ha raccontato la relazione di amicizia profonda e sincera che a lui lo legava.
La cerimonia si è conclusa con il taglio del nastro e l’apertura ufficiale alla consultazione del Fondo librario “Giorgio Cavallini”.

26 settembre 2020 | Enrico Beccaria, sindaco di San Salvatore Monferrato, introduce la cerimonia di apertura del Fondo librario “Giorgio Cavallini”

Con sincera gratitudine al signor sindaco di San Salvatore Monferrato, Enrico Beccaria, al Vicesindaco Corrado Tagliabue e alla Giunta, per la sensibilità culturale dimostrata, per la coscienza che il libro è centro di relazioni e di affetti, “luogo d’incontro”, tempo che non passa.

Grato a Elena Amisano, bibliotecaria di San Salvatore Monferrato, per aver saputo dare al fondo librario «Giorgio Cavallini» la collocazione che gli permetterà di continuare a vivere, tra le mani degli studenti e degli studiosi e di quelle giovani generazioni che Giorgio Cavallini, professore fino alla più profonda radice del suo essere, aveva tra le più care.

[il ricordo di Stefano Termanini]

Avrei difficoltà a ricordare quando.

Se mi chiedessero: «quando hai conosciuto Giorgio Cavallini?», io avrei difficoltà a ricordare un momento preciso in cui questo accadde. So che accadde, però, ben più di vent’anni fa, perché quando Giorgio andò in pensione nel 2000 non gli ero ancora amico, ma già lo conoscevo bene, e dunque prima di allora. Ma dopo la mia laurea, d’altra parte (1995). Perché, durante il mio corso di laurea, anche se varie volte capitò di incrociarsi, non lo ebbi come mio professore: prima di allora già ci si salutava, ma per solo dovere di cortesia.

C’era, a quel tempo, una divisione piuttosto netta dei corsi di Letteratura italiana. Per provenienza di studi e per taglio del mio piano di studi, io ero destinato ad altri professori. Così, pur conoscendo già di nome e di fama Giorgio Cavallini, quando dovetti indicare il corso di Letteratura italiana che avrei frequentato, scelsi Franco Croce Bermondi. Allora non sapevo (lo avrei scoperto molto tempo dopo) che Franco Croce Bermondi e Giorgio Cavallini, per quelle vicende della vita che ora ci avvicinano, poi ci allontanano e quindi ci riavvicinano, prima di esasere colleghi a Genova erano stati compagni di classe al liceo classico di Sarzana negli anni della guerra.

La mia frequentazione del Dipartimento di Letteratura italiana (il quale, all’epoca, si chiamava ancora “Istituto”) cominciò a essere assidua dopo il 1997. Colloco, dunque, tra quella data e i due-tre anni successivi le fondamenta del bellissimo rapporto di amicizia che mi ha legato al professor Giorgio Cavallini. Mi ricordo che sedeva in uno studio piccolo, non comodo. Era uno studio ricavato negli ambienti della biblioteca, perché – come, lo scoprii in seguito, in casa sua – anche all’Istituto di Letteratura italiana c’era una sovrabbondanza tale di libri che non si sapeva dove metterli, e capitava non di rado a noi dottorandi di dover entrare negli studi mentre i professori vi lavoravano. Con qualche timidezza chiedevamo se ci fosse consentito di cercare fra i libri, silenziosi e sordi alle conversazioni che nel frattempo, negli studi, si svolgevano. Non è che tutti i professori gradissero in eguale modo questa promiscuità di spazi e di funzioni. C’erano, anzi, gli estremi: quelli che questa promiscuità non la gradivano affatto e non ne facevano mistero, tirandosi dietro, con pesantezza, porte scrostate e malchiudenti, e quelli che militavano per una fratellanza universale, una eguaglianza senza confini, che si sostanziava in gesti che oggi, a trent’anni da allora e a quasi cinquant’anni d’età, non possono che apparirmi di qualche goffa esibizione o di spuntata protesta. Cose come fumare nello studio e consentire che tutti vi fumassero: professori, studenti, bidelli… finendo con il discriminare, alla fin fine, i soli salutisti e i non fumatori. Come me.

Ricordo bene, però, che quando mi affacciavo alla porta della stanza studio-biblioteca occupata dal professor Cavallini e chiedevo se non gli fosse di disturbo che io mi cercassi e prendessi due o tre libri, lui mi accoglieva sempre con simpatia e cordialità. «Questo non è il mio studio – mi diceva – questa è la biblioteca». Oppure: «è pubblico. È la biblioteca. Non è il mio studio». Frasi piccole, segni non soltanto di una cordialità naturale e di una capacità di far nascere e crescere relazioni profonde e vitali con gli studenti, cose di cui dirò, ma segni, anche, di un rapporto con le istituzioni, di cui Giorgio Cavallini aveva grande rispetto e di cui sempre si considerò un “servitore”. Era proprio così. Per il professor Cavallini, il “mestiere” del professore era cosa di preparazione e di responsabilità e la responsabilità, questo sentimento sacro del dovere, veniva addirittura prima della preparazione nella sua scala dei valori, perché il professore avrebbe dovuto prepararsi su ciò che non gli fosse stato già noto (e prepararsi a fondo) proprio in ragione di quella molla dentro di sé che rispondeva al nome di responsabilità. Responsabilità verso gli allievi («noi siamo al servizio degli studenti», diceva), responsabilità verso l’istituzione, perché l’Università, per quel che rappresentava e nella parola stessa, aveva per lui un significato di sacralità e perché l’Università, almeno quella a cui Giorgio Cavallini afferiva, era dentro il sistema dello Stato, era una parte fondamentale del Paese. Prendere lo stipendio dallo Stato, come talvolta diceva, per insegnare, voleva dire per Giorgio Cavallini portare la responsabilità dell’insegnamento: esercitarlo, dunque, ogni volta che fosse possibile, in cattedra e non, tra le mura universitarie e quasi ugualmente spesso e certo più volentieri fuori da quelle ed esercitarlo con rigore, con esattezza. «Se il professore sbaglia – mi diceva – ha il dovere di correggersi». In questo modo mi manifestava il suo pensiero. Quell’altro – e cioè quello secondo cui il professore avesse il dovere di correggere anche gli altri, ogni volta che gli fossero a tiro – non me lo manifestava sotto forma di regola, ma ne vedevo spesso la prova. E l’avrei vista, ancora più spesso, prima lavorando con Giorgio (perché ho avuto questo grande privilegio e questa fortuna) e poi (privilegio ancora maggiore) godendo del beneficio ricambiato della sua amicizia.

Nella correzione era severissimo. Correggeva i congiuntivi degli studenti, appesantiti dagli zaini e dai brufoli, sull’autobus e sul treno. Era ubiquamente professore. «Per questo lo Stato mi ha dato lo stipendio», mi diceva. «Per insegnare». E per correggere. Diceva che non si poteva far finta di niente, che non tutto andava sempre bene (benché su standard sempre più bassi si stesse ormai adagiando l’andazzo) e che bisognava dirlo. «Gli va detto. Bisogna correggere quello che non va. Altrimenti è un inganno». Insomma, evitare di correggere le mandrie festanti, e infestanti anche, qualche volta, degli studenti che si assiepavano irruenti sui treni della Riviera, quando l’estate alle 8 e 30 prendeva il treno per l’amata nuotata delle cento bracciate a Vesima, era non una norma igienica, di autotutela, ma un inganno. «Giorgio – lo mettevo in guardia bonariamente – fa’ attenzione che questi ragazzi non è detto che abbiano quel buon carattere che vorremmo e che auspichiamo per loro. E magari non ti ringraziano quando li correggi. Forse nemmeno capiscono. Potrebbero perfino prendersela a male…». Sarei stato, insomma, meno drastico di lui e a questo lo invitavo temendo per lui. Non avrei giudicato la sua omissione di intervento come un inganno o, peggio!, come una offesa al compito affidatogli dallo Stato. Sarei stato più prudente, ecco. Giorgio, però, mi metteva a tacere: «Qualcuno deve ben dirglielo!», fulminava. Cosicché, insegnando un altro po’ anche a me la lezione del coraggio, mi faceva pentire della mia poca diligenza, del mio individualismo, della parvità che non mi apparteneva, ma in cui per un momento ero pure caduto, come in una trappola.

Credo che intorno al 1997-98 avessi scritto una recensione di un suo libro da poco pubblicato. Gliene avevo lasciata copia nella cassetta della posta in Istituto. Secondo mia abitudine, l’avevo accompagnata con qualche rigo manoscritto. Fino ad allora, la conoscenza era stata quella, superficiale e circostanziale, di cui ho detto, ma quella volta, con la sua voce squillante, mi telefonò, mi disse che aveva letto la mia recensione, la lodò, mi ringraziò con grande cordialità e mi disse che gli avrebbe fatto molto piacere se, quando fossi stato in Istituto, fossi andato a trovarlo. Così feci. Mi regalò molti altri suoi libri e da allora capitò sempre più frequentemente di vedersi, di salutarsi, di scambiarsi libri (i suoi, molto importanti, di cui con generosità mi faceva dono) e scritti (qualche mio breve articolo, che, per corrispondergli e per la timida ambizione di farmi leggere – ambizione da giovane, aspirante ricercatore –, gli lasciavo nella solita cassetta delle lettere e che lui molto apprezzava).

A ricordarli oggi sembrano tempi tanto lontani.

Anche per le vie e per i modi che la nascente amicizia fra un affermato professore di ruolo e un dottorando alle prime armi seguiva. Una via fatta di carta, di stampa, di penna, di francobolli.

Quante cose che mi ha insegnato! Ci ho pensato tante volte in questi due anni che sono trascorsi da quando Giorgio non c’è più, ma ci avevo pensato anche prima, perché, nell’ultimo periodo, una malattia crudele lo aveva svuotato della sua memoria e del suo monumentale sapere, dei classici che conosceva a memoria, dei canti di Dante che qualche volta recitavamo quasi a gara o delle poesie di Leopardi, che, se avesse dovuto fare una lista, avrebbe messo in cima, ne sono sicuro, forse appena sopra a Montale; delle parole difficili dei poeti barocchi, della grammatica greca e latina. Giorgio, che ormai viveva sulla sedia a rotelle, pareva il corpo di Giorgio, privato della sua persona.

Credo proprio che sia così. Anzi, ne sono sicuro: le cose che il professor Giorgio Cavallini mi ha insegnato, le cose che il carissimo amico Giorgio mi ha insegnato, sono innumerevoli. Mi pare tuttora un po’ strano, però, che, con tutto quello che sapeva di letteratura italiana e di cui pure tante volte si parlava, gli insegnamenti che di lui ricordo più volentieri e che di sicuro restano più profondi e vitali in me, sono altri. Il senso di responsabilità, soprattutto. Il suo rigore, nelle grandi come nelle piccole cose; un rigore che poteva diventare mania del rigore a guardarlo con superficialità, ma che, ripensandoci, ho capito invece quanto fosse una sua cifra e uno dei pilastri su cui le persone della sua generazione e di quella ancora precedente hanno costruito, per il nostro Paese, una stabilità che nonostante tutto resiste. Rigore che era impegno, che era serietà. Rigore che non conosceva allascamenti, che rifuggiva ogni pigrizia, ogni corrività. Rigore nel lavoro, rigore nell’amicizia.

Parlando di amici e di amicizia, Giorgio aveva un’altra bella virtù, virtù poco comune a Genova, dove – non è canzonatura – un po’ gelosi e un po’ avari lo si è per davvero. Gelosi e avari anche con le amicizie. Mi spiego. Si dice che i Genovesi, schivi, difficili, “selvatici” (lo ha detto anche Renzo Piano, il giorno in cui è stato inaugurato questo nuovo ponte Genova-San Giorgio), quando concedono la propria amicizia, sappiano essere amici, con fedeltà, lungo una vita intera. Credo sia vero. Non sono, però – quegli stessi Genovesi –, inclini a presentare fra loro gli amici, quasi abbiano paura di essere superati e che l’amico diventi poi, dell’amico, più amico. Gelosia? Insicurezza? Proprio quella “selvatichezza” di cui anche Renzo Piano ha recentemente parlato dinanzi ai microfoni della mondovisione? Non saprei spiegarlo, ma so com’è e so che è così. Non era così per Giorgio, però. Gli amici di Giorgio – lui avrebbe voluto – dovevano essere tra sé amici e Giorgio stesso creava le condizioni perché questo accadesse; condizioni di sodalizio, di frequentazione, di reciproca stima, che alimentava parlando bene degli uni agli altri e riunendoci tutti. Con Massimo Meattini, con Barbara Guglielmo, con tanti altri, che oggi non sono potuti essere qui con noi, è accaduto proprio come sto dicendo: Giorgio ha favorito la nostra amicizia, che a lui dobbiamo. Giorgio è riuscito nel suo intento di far diventare amici gli amici, che era forse un altro dei modi da lui praticati (con la scrittura) per sopravvivere al presente e per continuare a esistere nel futuro. Una delle sue invenzioni per sfidare l’incerto equilibrio della durata, se è vero, e lo è, che ogni volta che ci incontriamo, con Barbara, con Massimo, parliamo di Giorgio, ricordiamo i suoi insegnamenti, le sue battute, i suoi “motti”. Era un’altra forma di generosità di cui era dotato: era generoso nel seminare germi di amicizia tra i suoi amici, così come era generoso nel raccontare il suo sapere e le emozioni di una nuova lettura. Anche i libri faceva incontrare tra loro. Anche i lettori dei libri. Mi parlava dei Sillabari di Goffredo Parise, che amava per la limpidezza della scrittura, ma amava anche Gadda, quest’ultimo per la fantasia della lingua e dell’immagine, e Campanile e Flaiano, per l’arguzia che sempre lo faceva ridere. Fu Giorgio a farmi conoscere Raffaele La Capria, che ebbi poi la gioia di incontrare di persona nella sua bella casa romana, accolto con meravigliosa cordialità, e l’onore di riuscire a persuaderlo a venire al Palazzo Ducale di Genova per una sua lectio magistralis, nel maggio del 2012, al tempo in cui collaboravo con la Fondazione Garrone. «Ferito a morte – mi ripeteva Giorgio – ferito a morte», rievocando il titolo del più famoso libro di La Capria, non senza, però, apprezzare il La Capria più recente, non più bisognoso di dimostrare niente a nessuno e quindi ancora più semplice, quintessenziato, puro di una purezza essenziale. Il La Capria della Neve del Vesuvio, con cui chiudevo i miei corsi di Letteratura italiana nella sede padovana di Boston University, appena prima di salutare (per sempre) i miei studenti prossimi a tornare negli Stati Uniti. Fu Giorgio a farmi conoscere Vincenzo Guerrazzi, altro grande, geniale amico, pittore e scrittore, di cui Giorgio diceva che «aveva un diamante nella capa»; a riconoscere, ancora precoce, il talento di Giuseppe Lupo, allora al suo primo romanzo e oggi premiato, eccellente autore di levatura nazionale e internazionale. Mi presentò a Sebastiano Mondadori, che aveva esordito nella narrativa con storie vivaci e prosa brillante, a tutti i suoi amici cattedratici, sparsi tra le Università di tutta Italia, ai professori Raffaele Giglio di Napoli e Giorgio Baroni di Milano. Aveva, infatti, contatti cordiali e colleganze maturate in amicizia quasi ovunque, ma quasi più fuori Genova, da cui gli piaceva uscire, saltando sull’Intercity alla volta di qualche convegno. Oppure per le vacanze, sobrie e ordinate in ogni caso, prima di mare, poi di montagna, a Cortina.

La mia casa editrice compiva i suoi primi passi e Giorgio, da mio sostenitore, voleva aiutarmi facendomi mettere in catalogo libri importanti, di autori importanti. Lui stesso pubblicò quattro libri con me: L’uomo delle mimose. Sei studi su Francesco Biamonti, con introduzione di Alberto Beniscelli, nel 2007; Registri stilistici da Dante a Pirandello e altri del Novecento, con introduzione di Raffaele Giglio, nel 2009; La magia della letteratura e i suoi autori, sempre con introduzione di Raffaele Giglio, nel 2012; infine Nuovi scritti e pagine scelte, con introduzione di Alberto Beniscelli, nel 2014. Al primo di questi, su Francesco Biamonti, che fino ad allora avevo conosciuto e letto un po’ superficialmente, devo la gioia della scoperta di quelle pagine scabre de L’angelo di Avrigue (1983), Vento largo (1991), Attesa sul mare (1994), Le parole la notte (1998), Il silenzio (non finito e postumo),scolpite a sicuri colpi di scalpello. Si diceva che Biamonti vivesse o fosse vissuto coltivando mimose. Era una leggenda, che circolava, ma tutti, meno i più ingenui, sapevano che era stata messa in giro da un editor dell’Einaudi – alcuni dicevano che in quella leggenda c’entrasse addirittura Calvino – per rendere più interessante la sua scoperta. Non era mai stato vero, anche se era vero che nessuno aveva mai capito di che cosa avesse vissuto Biamonti fino al giorno in cui, non più giovane, era diventato dalla mattina alla sera uno scrittore celebrato e famoso. A Giorgio, leggenda o verità, un talento che si manifestava come naturale piaceva. Lui amava – l’ho già detto – la “semplicità”. Proprio come – lo ricordavo – lo aveva colpito la scrittura di Guerrazzi, così lo colpivano i semplici che riuscivano a essere puri e i sapienti che riuscivano a ritornare semplici.

Non mi chiese mai, come tanti altri hanno fatto dopo, perché mi fossi “inventato” il mestiere difficile dell’editore e non ebbi, dunque, mai modo di rispondergli, così come ho risposto a tanti altri che me ne hanno chiesto, dopo. Forse sapeva che, pur nella grande differenza di anni, di esperienza e di sapere, condividevamo per natura un’attitudine, che poteva essere anche una frenesia o, come lui diceva, “una mania”: quella di non far disperdere le parole; o addirittura quella – nobile, visionaria, velleitaria – di metterle in salvo.

Di lettere si parlava: di esempi buoni e di esempi cattivi. C’erano volte in cui si commentava insieme le lagne di qualche poeta. Più facile era che fosse qualche poetessa. In quanto professore di letteratura italiana, severo sì, ma anche disponibile, Giorgio Cavallini riceveva continue istanze da parte di scrittori in erba, poeti e aspiranti tali, versificatori, lirici soi disant. E più ancora erano le poetesse. Una vera piaga, in qualche caso. Lo sollecitavano con richieste di prefazioni, introduzioni, premesse, giudizi. Lo lusingavano con doni di libri e inviti a colazione e pranzo. Lo volevano accanto a sé in simposi e presentazioni, durante le sospirose letture di poesie che avevano l’io della scrivente quale centro del mondo. Altri al posto suo avrebbero declinato. Alcuni – ne conosco – avrebbero riso. O sorriso. Giorgio, invece, era disponibile, si concedeva e poi, quando era al tavolo dei relatori o seduto in prima fila, cominciava a sospirare. Quando partiva la sequela dei sospiri, gli sdilinquimenti, le impostazioni delle voci e le poetesse incipriate, per solito d’età, prendevano il fiato (risucchiandolo attraverso la dentiera), Giorgio era già stufo. Non s’andava oltre i primi tre versi: si accorgeva che la metrica non tornava, loro si difendevano con il dire che era “licenza poetica” e che la lirica era troppo ribollente in loro, ribollente di voler essere detta, per soffermarsi e obbedire alla forma. Lui non ascoltava nemmeno più. Non si curava di nascondere le sue insofferenze, i suoi “uffa” dinanzi alla malagrazia di quelle signore e del loro goffo travestimento “alla Leopardi”. «Io, io», diceva, «sempre io. Questi poeti non sanno che dire io». E qualche volta mi diceva anche: «questi poeti sono insopportabili». Lui rispondeva all’invio delle loro poesie – Giorgio rispondeva sempre e a tutti, come fosse un suo sacro dovere: ricordo che arrivò a rispondere anche agli auguri che a Natale gli inviava, come agli altri 10milioni di utenti, Vodafone… – ma ecco, lui rispondeva, per cortesia, con la sua grafia sottile, minuta, ordinata, e quelle erano pronte a mostrare a tutti il retro della cartolina su cui “il professore” aveva espresso la propria riconoscenza e, dunque, il suo apprezzamento. «Bisogna stare attenti!», mi diceva. Ed era vero: lui scriveva, per formula di cortesia “grazie per il bel libro, fresco di stampa, che mi ha fatto piacere ricevere questa mattina con la posta” e loro esibivano le sue lettere, fregiandosi del fatto che “il professore”, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Genova, aveva detto, anzi scritto, che il libro era bello e che gli era piaciuto.

Ci sarebbero molti episodi divertenti che vorrei ricordare e che sempre ricordo, perché ricordarli è ricordare tratti vivissimi della personalità amica del caro Giorgio, così che, quando mi capita, quasi mi pare di riaverlo qui con noi. Ricordo, per esempio, quando convocò gli amici per un consiglio, poiché doveva acquistare una nuova automobile. Venne a casa sua un ragazzo, un giovane venditore di automobili, e Giorgio lo ebbe subito in simpatia. Come faceva di solito, gli offrì qualche bevanda, in salotto, gli chiese per filo e per segno condizioni e prezzo. Poi su questo trattò al ribasso, peggio che un sensale di granaglie. Non che Giorgio fosse avaro, ma era prudente come tutta la generazione passata attraverso i rigori della guerra. Ed era essenziale. Ricordo che a quelli che non sapevano regolarsi a tavola o a cui non bastavano i soldi causa indulgenza ai piaceri dei buoni cibi, Giorgio opponeva il suo «con l’uovo e con la patata vai da tutte le parti». E così fu quella volta con l’auto. In omaggio alla sua essenzialità, Giorgio alzava di poco la cifra che era disposto a spendere e il venditore ogni volta toglieva e tagliava. Via la vernice metallizzata, via il volante speciale, via l’allestimento bicolore dei sedili, via… : ogni lusso, ogni vanità veniva via via cancellata. «Ovviamente le ruote dovrò lasciargliele» sbottò a un certo punto, stretto all’osso e messo alle corde. Giorgio osservò che “ovviamente” era meglio che non fosse usato, ma che sì, certo, delle ruote c’era bisogno. Allora il venditore tirò fuori da una cartelletta un contratto di venti pagine e glielo passò. Sospirava. Ce l’aveva alla fin fine fatta. Giorgio guardò il contratto, lo soppesò, trasecolò dinanzi alla stampa in corpo 7 e disse: «e io dovrei firmare senza leggere?».

Punto a capo. Il venditore fu riconvocato dopo un paio di giorni. Solo allora la vendita andò finalmente in buon porto.

Parlavamo di poesia e Giorgio manifestava tutta la sua insofferenza dinanzi alla retorica travestita di poesia, che era insofferenza per la mancanza di vera ispirazione; per la mancanza di autocritica, di severità verso se stessi (lui che tanta ne applicava con sé). Era insofferenza per chi non sapeva vestirsi di “semplicità” (virtù che amava e che approvava) e si fregiava, invece, di pizzi e di merletti non propri.

Non dico degli sdilinquimenti, del simulato “male di vivere”: credo che non li potesse soffrire. A tutta questa paccottiglia – tale la considerava – Giorgio opponeva uno dei suoi “motti”. Diceva: «io voglio stare allegro!». Tra i “motti” ce n’erano di bellissimi, di riusciti, di esatti (e uso la parola nel senso che a lui piacerebbe, perché ricordo bene quanto lo innervosisse sentire gli studenti prorompere in “esatto!”, come se si fosse a un quiz). Noi li ricordiamo spesso tuttora. Sono entrati a far parte del nostro lessico famigliare. Per esempio, riguardo agli atteggiamenti troppo intraprendenti di certe donne moderne. Le criticava per una certa frenesia eccessiva, per un dover parlare sempre e comunque, anche vanamente, per quel parlare sempre al cellulare, mentre magari – come diceva – si dimenticano del passeggino che va a finire in strada. Le criticava e, quando te le raccontava, erano piccoli quadri di vita di ogni giorno, di psicopatologia della vita quotidiana. «Io sono per le donne – cominciava e premetteva – figurati se io non sono per le donne, però…» E qui lasciava cadere la sua critica. La premessa funzionava sempre. Quel «io sono per le donne, figurati se io non sono per le donne» ti strappava un sorriso. E anche la critica che subito seguiva, se pure aveva rischiato di esserlo, diventava meno pedante; più accettabile, più efficace. Gli altri ridevano. Perfino le donne. Lui, però, lui non rideva. Quando riferiva delle donne troppo impegnate, Giorgio ne era sempre un po’ preoccupato, per davvero … Gli pareva che il mondo stesse perdendo le regole della sua tradizionale saggezza e questo non gli piaceva. Non poteva piacergli.

Le poetesse, invece, lo facevano ridere. Per opposizione, non foss’altro. Leggeva due pagine, gettava il libro su uno dei suoi vecchi mobili, stipati dei libri che ora sono qui – gli altri libri, quelli importanti, quelli che amava. Gettava in un canto, tenendo ben separato il buon grano dei classici dal loglio dei poetastri. E diceva quella frase «Io voglio stare allegro!», di cui soltanto molto tempo dopo ho capito il senso. C’erano stati fatti, nella sua vita regolare e bella, intessuta di affetti famigliari saldi, a cui Giorgio aveva partecipato da vicino e pure in prestito, che erano stati ferite profonde. Lasciando l’Università, al fondo della pagina con cui introduceva il piccolo libro Scritti di servizio di cui i colleghi del Dipartimento gli avevano fatto dono, Giorgio scriveva, un po’ come in una epigrafe, eppure con la semplicità densa che soltanto le parole di ogni giorno hanno: «Un pensiero affettuoso, profondamente grato alla cara memoria dei miei genitori, Luigi e Maria Bandini, di mia sorella Brunella e di mio nipote Nicola Simeoni: tutti se ne sono andati via, per un viaggio senza ritorno; ma tutti sono sempre vivi e presenti nel mio cuore».

Il 1° luglio 1985, mentre viaggiava sulla sua Fiat 125 con la moglie verso Napoli, sua città d’origine, il vicequestore di Sanremo Gennaro Simeoni, da tutti stimato per la sua irreprensibilità e per il suo merito, si scontrava in un frontale con una Alfasud. Moriva quasi sul colpo. Con lui, poco dopo di lui, la moglie Brunella Cavallini, sorella di Giorgio. Il loro figlio Nicola, improvvisamente orfano, moriva nel luglio del 1989, a soli 27 anni, dopo una crudele e fatale malattia. Giorgio non voleva parlare di questi dolori. Non ne parlava mai. I suoi cari – come scriveva – li aveva sempre nella memoria e nel cuore, così come pensava spesso a quel passo che loro avevano affrontato tanto precocemente e ingiustamente e contro regole ritmi della natura, ma proprio perché quella sofferenza si era incisa in lui, lui diceva di voler “stare allegro”. Uno sforzo di volontà, appunto, un voler stare allegro: volere, per lui, era tanto spesso uguale a dovere. E così, infatti, era. Giorgio era allegro, sapeva essere allegro, amava essere allegro. Il senso dell’amicizia, che coltivava e che verificava, era qui dentro, dentro questo suo sistema di valori. Gli amici erano il suo presente e il suo futuro: come non avrebbe saputo stare senza libri e senza lettere, Giorgio non avrebbe mai saputo stare senza amici. Li metteva alla prova, qualche volta, li iscriveva e li cancellava sul quaderno dell’amicizia, ma sempre dava loro un’importanza straordinaria e ne faceva una parte importante della sua vita.

Oltre un certo limite, raggiunta una certa età, anche la scrittura assunse questo significato. Gli serviva a sviluppare il suo pensiero sugli autori della letteratura italiana, certamente, così come aveva fatto prima e come  continuava a fare poi, ma gli serviva ancora di più a tenere viva una rete di relazioni di amicizia che avevano sostanza nell’invio di un nuovo libro al vecchio collega, nell’attesa della sua risposta e nella risposta che Giorgio dava alla risposta; o nella pubblicazione di una delle sue numerose plaquette di “versi” – non li chiamava “poesie”, ma “versi”, ed erano raccolti in libretti formato 10×15, di venti pagine al massimo, vestite di copertine colorate. Il “verso” corrispondeva alla tecnica, si definiva nel rispetto alle regole della metrica e della prosodia. La poesia è quella cosa che ti riconoscono gli altri quando arrivi giù giù, fino a commuoverli; non te la dici da solo. Non “poesie”, dunque, ma “versi”, molti dei quali poetici e alcuni, di sicuro, vere e proprie poesie, ma – per sua esplicita scelta – solo e soltanto “versi” nella definizione che Giorgio scelse per sé. Ne conto almeno 22, ventidue libretti colorati, tutti stampati presso Glauco Brigati, tranne forse l’ultimo, che preparai io, in fretta e furia, per uno dei suoi ultimi compleanni celebrati con gli amici, appunto, con gli amici “venuti a festeggiarmi”, come scriveva nel titolo. Ventidue più qualche foglio sparso; qualche addendum che si inseriva tra le pagine, perché l’opera non aveva mai fine ed era fluida, com’era fluida l’esperienza giornaliera della vita, che nei “versi” Giorgio aspirava a raccontare per condividerla e per renderla di nuovo fluente, dentro l’amicizia, che tornava a ricomporsi anche per l’occasione di una nuova uscita di “versi” o in preparazione di “versi” “nuovi” o “d’occasione” – come gli piaceva chiamarli.

I saggi che aveva scritto su Manzoni e Leopardi e Goldoni – gli amatissimi Manzoni, Leopardi e Goldoni – erano lavoro. I “versi” erano la vita vera e reale degli amici riuniti per un compleanno, una presentazione di libro, uno scambio di panettoni, una gita al margine di un convegno, un pranzo, evocati in un gesto, celebrati per un risultato, una meta della vita. Per me scrisse “versi” quando mi sposai, quando nacque mia figlia Giulia, quando capitò che con Giulia bambina andassimo a trovarlo e in varie altre occasioni. Sono gli amici i protagonisti dei “versi” di Giorgio e sono proprio questi “versi”, ai quali evidentemente teneva, così come teneva agli amici, più ancora che ai libri che lo avevano reso professore celebrato e di fama, che, nelle sue volontà ci ha raccomandato di ristampare. Così come ci ripromettiamo di fare.

Voglio dire che in futuro torneremo certo su questi “versi”, molti dei quali sono senza dubbio “poesie”.

«Non scambiare i ruscelletti per le fonti», «leggere e rileggere», specie i classici, perché il piacere della lettura fosse sentito prima e poi, tornando alle medesime pagine, già note, apprezzato e approfondito, sempre più e meglio, con minore tensione, con più gioia, dopo che il ghiaccio era rotto. Leggere qualche volta scorrendo il libro, altre volte soffermandosi su ogni parola. Leggere con concentrazione, leggere evitando ogni passività (esiste una lettura passiva? Forse no, concludeva)… Trovo questi consigli, di cui tante volte diceva e che certo metteva ogni giorno in pratica, nelle «Motivazioni alla lettura», uno dei capitoli più importanti e formativi del suo Scritti di servizio, il volumetto, introdotto dall’allora direttore di Dipartimento di Italianistica prof. Vittorio Coletti, che gli fu donato a celebrazione del suo pensionamento – o della sua “messa a riposo”, come scriveva Vittorio Coletti, facendo ricorso all’uso sorvegliato della lingua. È una pagina di consigli che sarebbero tutt’oggi da mettere sotto cornice: la lettura aiuta la decodificazione di idee passivamente sedimentate in noi e favorisce la scoperta della verità; il libro è un messaggio che viene da lontano; il libro è un ponte fra passato e futuro, è interdisciplinare, riscatta la parola dal suo “consumo standardizzato e massificato, ridandole individualità e spessore” e via così. Tante piccole (ma grandi, in vero, la maggior parte) perle di saggezza sul libro, la lettura, la parola scritta e la sua durata. L’ultima è, come spesso, la più forte. Dice che il libro è come uno specchio. Ti costringe a metterti di fronte a te stesso e a «guardarsi in faccia senza veli» (Scritti di servizio, p. 19).

Altrove in Scritti di servizio si pone il problema della lettura e della distanza tra i giovani e i libri. Sono passati vent’anni da quando Giorgio Cavallini si poneva quel problema e scriveva quelle parole e la distanza tra i giovani e i libri è indicibilmente aumentata. È aumentata anche la distanza tra quelli che allora erano giovani e che ora, vent’anni dopo, lo sono meno o non lo sono più. Erano distanti quando Cavallini scriveva; oggi non so più vicini. Ma il professore Giorgio Cavallini, forte della sua esperienza di scuola e poi di Università, di casa e di libri, dava ricette di amore per la lettura, suggerendo, per esempio, di promuovere letture pubbliche, che favorissero la socialità attorno al libro. Il fatto che la lettura sia vista come attività solitaria e controsociale, scriveva, è, infatti, uno dei peggiori ostacoli che si frappongono fra chi vorrebbe leggere e il libro; che più intralciano l’aspirazione ingenua degli aspiranti lettori. Siamo in una biblioteca, siamo qui a celebrare il Giorgio Cavallini lettore e donatore di un fondo librario che a San Salvatore resterà, legato alla sua memoria, e che un po’ vorremmo si consumasse (lo si dice con bonarietà), come accade ai libri molto letti, fra le mani delle giovani generazioni. Trovo giusto chiudere sul tema dei libri. Trovo giusto, parlando di libri, parlare anche di lettura e molto appropriato mi pare che il donatore, che oggi ricordiamo e celebriamo, ci offra spigolature di sicuro successo nella promozione di una lettura che amalgami invece di separare, che “assembri”, invece di “distanziare” (coronavirus a parte!). [stefano termanini]

Inaugurazione del Fondo librario “Giorgio Cavallini” | San Salvatore Monferrato, 26 settembre 2020

Perché vorrei che lassù sull’Appennino ci fosse una strada e quale nome vorrei che portasse

Tra il borgo di Bogli e Capanne di Carrega: una “via”, tra i boschi di faggi, intitolata al prof. Giuseppe Fogliani per collegare – a piedi, in bici, a cavallo – l’Alto Oltrepo e i sentieri del Parco dell’Antola

Questa storia comincia su una strada e racconta di una strada. Da allora, dai fatti di cui si leggerà, sono passati alcuni anni ormai, ma la strada, una almeno di quelle di cui si parla, è rimasta come allora; sempre la stessa. Ci sono passato un mese fa, era Ferragosto, e l’ho percorsa su e giù, a piedi e in bicicletta, cercando tra i miei ricordi.

Credo fosse il 2005 o il 2006 quando cominciammo a ragionare di un progetto che ci riempiva di entusiasmo e fu per caso e fu per la strada.

Quella volta mi ero messo in mente di prendere la provinciale che dal Pian dell’Armà scende verso Varzi, per salire poi per il sentiero (quasi una rotabile) che si arrampica sul monte Bagnolo e poi sulla tonda sommità alberata del Boglelio, lungo il tratto della Via del Sale che, in una ventina di chilometri, collega Varzi con il monte Chiappo. Sono valli ampie che culminano in vette erbose, queste. Pascoli e boschi che, chi non sa, potrebbe immaginare appena più che colline e che sono, invece, erti declivi gli uni, disseminati di erbe che profumano d’altezza, fitti e intricati gli altri. I boschi sono cedui. Faggi, roverelle, qualche aghifoglia, larici perlopiù o abeti, piantumati dalla Forestale una trentina di anni fa, quando ad ogni pioggia d’autunno pareva che tutta la parete sopra il borgo di Cegni, un ciglione misto di terra e pietre, dovesse smottare, magari addirittura travolgere strada ed abitato.

Lui era a bordo strada, camminava. Era la sua passeggiata consueta; la ripeteva ogni pomeriggio.

Passando, anche allora in bicicletta, lo salutai e mi fermai.

Da quanto non ci vedevamo? Da quindici, da vent’anni? Lui si ricordava di me ragazzo e, anche prima, ragazzino e poco più che  bambino. Si ricordava di quando, con altri amici della stessa età, costruivamo capanne e case sugli alberi. «C’era anche un tavolino. E una panca. E il forno», gli ricordavo, sorridendo. Avevamo costruito un nostro luogo, a misura nostra.

Quella volta, la prima dopo tanto tempo, ci riconoscemmo e ritrovammo quell’amicizia antica, che per me potrei dire quasi originaria. Cominciammo così a parlare dei boschi, delle valli, dell’aria pura, dell’acqua delle sorgenti, dei sentieri. Era chiaro che l’economia di quei luoghi stava cambiando e non era colpa di nessuno – non del poco dinamismo degli albergatori, non degli investimenti troppo poveri – se la gente preferiva andare altrove. Tasse e costi troppo alti: i ristoranti, gli alberghi non ce la facevano a restare aperti tutto l’anno. Cambiamenti di mentalità: gestori di alberghi e ristoratori non trovavano più personale; i borghi della valle si erano svuotati e cameriere e cuoche parlavano ormai lingue dell’Est Europa. «Per ora ci sono gli anziani, che resistono. Ma poi?», mi diceva. Quando andava in pensione un ristoratore o un albergatore c’era da sperare che non avesse nessun altro posto in cui andare, così restava lì, a fare, nonostante la pensione, il lavoro che aveva sempre fatto, sino alla fine dei suoi giorni. Se il suo orizzonte era più ampio, se aveva alternative, come figli che lo aspettavano in città o all’estero, partiva tirandosi dietro una porta sgangherata e chiudendola su un passato senza rimpiazzo che, da allora, sarebbe andato sgretolandosi.

Artana (da Altavaltrebbia.net)

Resistevano, gli anziani, nei borghi-fantasma di Artana, Suzzi, Tartago. In quanto ad abitanti, sono quelli messi peggio. A Bogli, che pure ha la fortuna di essere luogo d’origine dei Toscanini e che potrebbe illustrarsi per aver dato i natali ai nonni e ai genitori del grande Arturo. Finiti gli anziani, finiti paesi interi. Li vedi, passandoci sotto il bel sole di luglio e agosto, attraversando le strade lastricate, quando le migliori fra le vecchie case di pietra sono comunque abitate da quelli che hanno la nostalgia del ritorno. Ma tante sono le case ormai chiuse da un decennio e anche più, coi muri che si coprono di muffa e si sgretolano e ovunque – prestampati, di quelli che si compravano nelle cartolerie, gialli o color verde acceso – leggi cartelli «Vendesi», con sopra numeri di telefono, scritti in grosso, a penna e pennarello, e anche quelli scoloriti, che ti viene il dubbio che, se chiamassi, dall’altra parte, da molto ormai, non ci sarebbe più nessuno a risponderti.

La gente va sul Mar Rosso. Prende un low-cost. Va alle Canarie. Mette il costume da bagno e i bermuda dentro un bagaglio da cappelliera (come, con una certa ostinazione, insegnano a dire alle hostess) e staccano la spina. Finita l’epoca delle villeggiature, delle vacanze lunghe, famigliari, dei picnic in giacca e pantaloni di fustagno, delle passeggiate, della restituzione di visite di cortesia tra vicini di villa e finita l’epoca successiva delle villette a un’ora dalla città, meta di respiro e di ristoro, oggi che il tempo si è messo a correre a rompicollo e che case e casette sono diventati beni costosi, bersagli per l’Agenzia delle Entrate, porti sicuri di una tassazione famelica che astrusamente scambia per beni di lusso luoghi quasi antichi in cui, tra i tesori semplici di piccole pergole e alberi da frutto, scorreva un tempo sereno per le famiglie che si ritrovavano, nella gioia del ritorno a casa, sul fondo del lento avanzare, ricco di scoperte, di estati culminose e sovrane, tanto diverse dalle nostre, costellate di crisi, nevrotiche, singhiozzanti.

Oggi si corre. Oggi si deve correre. «Arrivano e vanno», mi diceva. «Andato, venuto, mangiato, bevuto. Tutti così, oggi. I giovani». Lo diceva e sospirava. Non era colpa loro, in fondo. Non era colpa di nessuno. Era il mondo e il modo in cui si era messo ad andare.

Ma fu così che, quella volta, a bordo strada, guardando le valli e i boschi, parlammo tanto a lungo che io saltai la mia prevista gita e nacque fra noi un progetto. Un progetto per una strada, perché, come mi diceva quella volta e molte altre: «Se c’è una strada, anche se ci passi veloce, ci passi. Ma se la strada non c’è, queste zone, tutte queste zone – si accompagnava con un gesto armonico, fluttuante, da direttore d’orchestra – muoiono».

L’idea si confronta con la realtà: un sopralluogo sopra Bogli

Casa Toscanini a Bogli

Passarono una, forse due, settimane. Continuammo a ragionare sul progetto della strada.

Poi, una volta, quasi a bruciapelo, mi domandò: “Ci andiamo insieme? Mi accompagni?”

Gli feci cenno di sì ancora prima di dirlo: “Ma certo!”.

Salii a prendere l’auto, parcheggiata sul ciglio della strada, e imboccai la discesa che porta davanti all’Albergo. Era già lì, con il suo bastone, il manico ricurvo e il puntale.

Andiamo.

La provinciale entra subito nella faggeta; si interrompono i raggi del sole, si sente la freschezza dell’ombra. Si scende, si passa sotto la seggiovia, allora in funzione. E poi attraverso una grande radura. Sono i pascoli dell’Alto Oltrepo (lui preferiva scriverlo senza l’accento. Mi diceva che, quando scrivevi Po, non l’accentavi). Una gettata di sguardo alle due o tre cime, sulla sinistra e davanti: il Lesima, dove salì Annibale e dove ora permanentemente svetta la cupola di un radar per il traffico aereo civile, l’Alfeo, coperto di boschi, raro a concedersi, la guglia obliqua del Cavalmurone e le sue tre gobbe, simili alle due di un cammello. Le due di un cammello più una. Noi andavamo da quella parte.

Un piccolo tornante, un incrocio, un passaggio veloce dinanzi alla cappella degli Alpini, dove lui si segna in ricordo dei caduti della vita, poi di nuovo nel bosco. Giriamo verso la val Boreca prima di valicare il passo che, da Capanne di Cosola immette in val Borbera e andiamo giù, verso i prati di Artana, che luccicano d’erba verde, più lustra per la recente pioggia. La strada per Bogli è in terra battuta e io rallento, per non scuoterci troppo e per difendere gli pneumatici della mia affezionata macchinetta.

“È stato qui – mi indica la guglia del Cavalmurone, che verso Bogli è a perpendicolo e di sasso – qui che, durante la guerra, si è schiantato quell’aereo”. Ma il bosco deve essere ricresciuto e così il prato e la roccia di quell’impatto non deve aver risentito che poco, perché la montagna, a me che non sapevo, pare intatta e bella come ogni altra.

“Fermiamoci”. La strada fa un ampio giro, su se stessa. C’è un tavolo, di legno, e due panche e noi parcheggiamo lì vicino, mezzo sul prato e mezzo sulla pista di polvere bianca.

“Si passerà così”, fa segno con il suo bastone, “scendendo verso la strada dove siamo, da quella spalletta lassù”. Mi indica il punto in cui il Cavalmurone scende, all’innesto con il Legnà, che si protende, invece, dall’altra parte, come una terrazza che va restringendosi fin quasi a diventare un trampolino, sulla val Borbera. È una specie di valle, una gola, un valico. “Da quel punto. Ci sono stato una volta, tanti anni fa. Ero con …” e fa il nome di un amico scomparso. Ricorda che c’era del bestiame al pascolo e una fontana, dove gli animali andavano ad abbeverarsi. Poi comincia a salire, su per la mulattiera che punta dritta verso il valico, prima inclinata e poi erta. Ha l’entusiasmo di un ragazzo, mentre mi racconta come saranno quei luoghi quando la via vi sarà stata tracciata. “Sarà uno sbocco. Un collegamento. Come togliere un tappo. Se non lo facciamo noi, questi luoghi… questi luoghi moriranno”. Si gira intorno, nel dirmelo, un cenno appena; quel che basta a darmi una prova del suo pensiero. E quanto dice è più che vero, è evidente: sotto di noi, il campanile della parrocchiale di Bogli suona il mezzogiorno; il suono si alza, baritonale, e altri suoni rispondono, più lontani, più argentini, più lievi. Suonano le campane delle chiese di Artana, Suzzi, Belnome, Tartago. Meglio si sentono quelle di Pej, che pure è più lontano, e qualcosa si indovina provenire da altri campanili, profondi nella valle Staffora. Controlla l’ora, pensa che è già tardi. “Eh sì, si vede, si vede chiaramente. Non ci sono dubbi: lasciando fuori il Rondino, si deve passare da qui. Poi sul fianco del Carmo, per scendere quindi vicino alle Capanne di Carrega. Dalle Capanne di Carrega alla strada di Bogli: ecco fatto! Poi, da una parte verso l’Alto Oltrepo, dall’altra verso il mare. Fino a Portofino”.

L’idea che si potesse andare avanti, scavalcando quelle montagne, e scendere, scendere in poche ore appena, fino ad arrivare al mare, lo riempiva di entusiasmo. Poi si fermava, mi diceva che forse era ora di tornare e che, intanto, avevamo visto. “Qui c’è spazio. Questa non è una mulattiera, non è nemmeno una carrareccia. Questa è un’autostrada!”.

Rotava su se stesso, ammirava ancora una volta il panorama, bellissimo e selvaggio. Mi ricordava ancora una volta, come se ci legasse un giuramento, un patto cavalleresco e in ogni modo sacro, che avevamo il compito di impedire che quel più remoto cuneo d’Oltrepo morisse. Quindi, con un velo di tristezza, riavviandoci verso l’auto: “Ma ha ragione il parroco di… Noi, questa strada, non la vedremo”.

Era triste dire che non l’avremmo vista e io mi provavo a contraddirlo. La vedremo, la vedremo, gli dicevo; e, nel dirlo, lui mi pareva così saldo, così inossidabile, così pieno di fede e di ottimismo e di voglia di vivere e di inspirare ogni sorso di quell’aria mezzo montana e mezzo marina (come usava dire), che ci credevo veramente. Ora, però, lo sappiamo che non è andata così. Che avevano ragione il parroco e lui. La strada non c’è ancora, forse non ci sarà mai. E lui non c’è più.

Ma se ci fosse, quella strada fatta perché l’Oltrepo che tanto amava vivesse, vorrei che portasse il suo nome. Sarebbe giusto che lo portasse, sarebbe dovuto. Che quella strada che dalle Capanne di Carrega sbocca sulla spalletta del Carmo e gli gira attorno, passa per i boschi che fiancheggiano il Rondino, sale sulla radice del Legnà e quindi sbivia verso il bosco che, sotto le rocce aquiline del Cavalmurone (quelle che videro schiantarsi l’aereo durante la guerra), si apre sulla strada, allora bianca e oggi asfaltata, per Bogli portasse il suo nome: «Via Giuseppe Fogliani». Così dovrà chiamarsi, quando sarà. Lui se l’è meritato. E sarà una strada alta, tra il bosco e il cielo, una via da cui si dominerà la valle di qua e di là: i boschi della val Boreca, i campanili, i grumi di case; il serpente argentato del Borbera e perfino un pezzo di mare. Il giorno in cui esisterà, la Via Giuseppe Fogliani sarà profumata di mare e profumata di monte, piena di sole e protetta dalle foglie di faggio, da cui filtra un’ombra come di smeraldo. Sarà degna di lui. Bisogna pensare in grande: sempre, diceva. Pensare in grande e guardare in alto, perché nel piccolo… nel piccolo “si può soltanto cadere. In caduta verticale”.

Il dono di serenità operosa delle lunghe estati trascorse al Pian dell’Armà

Giuseppe Fogliani al Pian dell’Armà ci veniva da cinquant’anni. Sessanta? O forse dagli Anni Cinquanta? Chissà. Di quello spicchio di Oltrepo era una parte d’anima. Saliva a giugno, finiti gli esami, con il suo rumoroso “Maggiolone”. Sugli alberi, appena finite le piogge della primavera, allora scoppiavano verdissime le foglie dei faggi. Ci stava fino a settembre, quando, chiusa la stagione dei temporali di fine agosto, il cielo tornava sereno, altissimo, l’aria limpida e pura e nuvole alte come torri d’avorio si spostavano candide e lente, simili a velieri in panna, in uno spazio immenso e spirituale.

All’Albergo dell’Armà prendeva due stanze: una per sé e per la consorte, la sua “diuturna sentinella”, come tanti anni più tardi scrisse, dedicandole il suo ultimo libro, dopo che ella lo aveva lasciato solo partendo tanto prima di lui per il suo viaggio estremo, e una per i suoi libri, le sue carte, i suoi progetti. Una come camera e una come studio, con il tavolino contro il muro esterno imbiancato a calce, sotto la finestra affacciata sul profilo famigliare e confortante del monte Lesima.

Nella sala da pranzo, da quando ne ho memoria, il suo tavolo era quello d’angolo, rotondo come era rotonda la tavola dei cavalieri di re Artù e aperta all’ospite come quella. La vista era la stessa della camera e dello studio. C’era, in più, uno spicchio di paesaggio, carpito e messo nella cornice della finestra, tra la vetta solare e trilobata del Cavalmurone e quella ombrosa che emergeva dalla ziggurat del monte Alfeo, troncopiramidale e remoto.

Il suo progetto Giuseppe Fogliani lo teneva sempre accanto a sé: ne aveva una copia in camera e una sul tavolo da pranzo. Si riparlava di una strada, di una via, uno «sbocco perché queste valli non muoiano», tra il monte Carmo e Capanne di Cosola. Il primo a parlargliene era stato – mi raccontò – il parroco di … Tanti anni prima. Proprio così: «Una via – aveva detto – che collegherà la valle Staffora, la val Boreca, la val Borbera, ma che noi, ahimè, noi non vedremo…»

Lui aveva, in realtà, una voglia matta di vederla, la sua via, e di cercarne il percorso, per salvare le “sue” montagne. La cercò per anni, passeggiando e chiedendo a chi faceva escursioni da quelle parti, quando passeggiare per erti sentieri gli divenne, per l’età, difficile o quando, per le condizioni del suo cuore, gli venne proibito. La cercammo insieme. E la trovammo, anche. Ho un ricordo di noi, seduti attorno al suo tavolo da pranzo, a metà pomeriggio, a guardare foto e cartine. E ne ho molti altri, uno, l’ultimo, ambientato nella sua camera presso la Fondazione Conte Cella di Rivara, dove si è compiuto il tempo della sua lunghissima e operosa vita, quando andai a trovarlo, dopo aver fatto io stesso il percorso.

«L’abbiamo trovata!» esordii quella volta. Ci sentimmo giunti alla meta della nostra ricerca. Eravamo felici. «Ora – ci dicemmo allora e vale anche per oggi – occorre che ci si metta di mezzo un ente parco. O la Federazione Escursionisti o il CAI. E che realizzi, con noi, quanto per tanti anni abbiamo pensato».

Tra il borgo di Bogli e Capanne di Carrega, salendo dal m. Cavalmurone, aggirando il m. Rondino e passando sulle pendici del m. Carmo: ecco come dovrebbe essere il percorso della strada Giuseppe Fogliani

Quando i progetti sono tanti così e, poi, così grandi, è possibile che ci travalichino. Alcuni si mettono nel cassetto per chi ci sta accanto  o per il futuro, quando ci sarà l’occasione buona, il momento opportuno, l’incontro giusto. Altri – e sono, per persone della tempra di Giuseppe Fogliani, la maggior parte – si tengono sul tavolo e ci si lavora sempre. Per tutta la vita, cercando e ricercando, per farli nascere, come pazienti e sapienti levatrici. Altri, infine, si donano a chi verrà. A chi raccoglierà il testimone.

Il Rinascimento dell’Oltrepo Pavese…, un libro-summa, in cui Giuseppe Fogliani raccolse la sua storia e il suo immenso “progettificio”

la copertina del libro

L’enorme “progettificio” di Giuseppe Fogliani egli volle raccoglierlo, negli ultimi anni, in un libro che è una summa. Il titolo è lunghissimo e riflette l’ampiezza delle argomentazioni (e delle possibilità in nuce): Il Rinascimento dell’Oltrepo Pavese culla storica della vitivinicoltura italiana come pure di zooagricoltura attraverso: l’arte, la letteratura, la musica, la storia, la geografia, la scienza e la cultura. Ci lavorammo per quasi due anni prima che vedesse la luce. Il concetto stesso di libro – mi accorsi, nel frattempo – era al tempo stesso adeguato e incongruo: un libro ferma e tramanda e ciò andava pur bene; ma è, anche, un’opera chiusa. Giuseppe Fogliani avrebbe desiderato un libro elastico, così come era elastica e fluida la sua creatività. Oppure un libro “aperto”, che ogni mattina si disfacesse e che alla sera fosse rifatto. Quando arrivammo alla fine, poiché aveva sempre nella mente e nel cuore il suo Oltrepo, decise che una copia del libro dovesse andare in dono a ciascun Sindaco di ogni Comune dell’Oltrepo. Gettava il testimone, proprio come fanno i veri maestri, come fanno i veri scienziati, perché chiunque potesse raccoglierlo. Ricordo ancora quel pomeriggio di inizio agosto in cui lasciai scatole di libri, odorosi di stampa e colla, preziosi per il loro patrimonio di idee e di storia, presso la cantina di Riccagioia, il cui Direttore si era gentilmente offerto di realizzare l’intenzione dell’Autore: far pervenire il libro-testimone ai Sindaci. Forse Giuseppe Fogliani si sarebbe meritato (così come si attendeva) riscontri e confronti. I quali, purtroppo, non ci furono. E fu – credo – una delusione.

La Formazione, l’accademia, i progetti. L’incontro con Caravaggio

il professor Giuseppe Fogliani, fitopatologo, instancabile ideatore e progettista di cultura (Broni 1922 – 2019)

Di se stesso, ricordando la sua formazione, amava dire “figlio di agricoltori cresciuto alla corte dei signori”. I suoi avi erano, infatti, proprietari di terre, che amministravano direttamente. Lui diceva “agricoltori” – e c’era molta nobiltà in quella parola. Quando, invece, raccontava di essere “cresciuto alla corte dei signori”, si riferiva al periodo (1945-49) trascorso a Rocca de’ Giorgi, presso la famiglia Giorgi di Vistarino, epoca quasi mitologica nel suo racconto, durante la quale aveva gettato le basi dei suoi primi studi di fitopatologia e aveva imparato – lo diceva – tanto altro, sulle persone, la distinzione, la signorilità e su come il mondo vada.

Ma diceva ancora, descrivendosi, di essere stato sempre: “con un piede in campo e la testa sui libri”. Gli piacevano molto queste formule, che coniava per sé, per gli altri, per i luoghi, per i suoi obiettivi, fino a farle diventare simili a proverbi, limpidi e divertenti. “Con un piede in campo” era un richiamo alla concretezza e quella della terra è massima. “La testa sui libri” evocava la scienza, la ricerca, quel sapere universitario che metteva al di sopra di ogni cosa. Ex aequo soltanto con la signorilità.

Diceva spesso anche delle ricerche condotte all’estero, in Portogallo (1957-59) e in Argentina (1989-90), e del suo lavoro di professore universitario, prima a Milano (1949-1964), quindi all’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Piacenza  (1965-1992), periodo, quest’ultimo, durante il quale aveva creato il Centro Lombardo di Studi Vitivinicoli di Riccagioia, in collegamento con l’Università degli Studi di Milano, e aveva diretto la Fondazione Agraria C. Gallini di Voghera (poi ERSAF). Di questo racconto esiste anche una versione scritta, da lui stesso redatta, nella prima parte del volume già citato Il Rinascimento dell’Oltrepo Pavese… È questo stesso volume che contiene anche i suoi progetti, tutti scaturiti da intuizioni interculturali, brillanti anche quando di difficile realizzazione, spesso geniali; non pochi dei quali, purtroppo, resteranno sulla carta. L’Oltrepo, nel libro, si descrive come una terra al crocevia di incontri culturali fra i più illustri e nobilitanti. Su questa falsariga, Giuseppe Fogliani aveva progettato e fatto disegnare un marchio, in cui si riunissero le effigi di Virgilio, Aristotele, Dante, Galileo, Vivaldi e Leonardo da Vinci, disposte attorno a un particolare della Canestra di frutta di Caravaggio, marchio che egli definì «Trilogia multicentrica del Made in Italy lombardo» e che bene si accostava con il marchio, descritto nel libro e depositato, del «GRAAL», ovvero il «Garante Responsabile Agroalimentare e Ambientale Lombardo»: un altro straordinario progetto che molto a lungo meditò, per affinarlo, e che nel libro viene puntualmente descritto.

Era autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche, tra fitopatologia e bromatologia, fece centinaia di interventi in convegni, simposi, tavole rotonde, molti altri ne organizzò, ma una fama imprevista presso il largo pubblico, al di fuori dell’ambito universitario, gli venne quando, a seguito di una tesi di laurea del 1978, in seguito brillantemente discussa dal suo candidato, dottore in Agraria Paolo Derchi, Giuseppe Fogliani riconobbe che Caravaggio, nei suoi dipinti, non si era limitato a dipingere patologie vegetali immaginarie e simboliche, ma che le aveva descritte con puntualità e conoscenza diretta. Per la precisione con cui Caravaggio dipinse le malattie delle piante, sulle foglie della Canestra di frutta e nel grappolo sorretto dal Bacchino malato, Giuseppe Fogliani lo definì: «pittore fotografo e fitopatologo ante litteram». Alle malattie descritte da Caravaggio nei suoi quadri, tutte riconosciute, Giuseppe Fogliani diede un nome: nella Canestra di frutta dell’Ambrosiana Caravaggio aveva dipinto affezioni di virosi della vite, nel Bacchino malato la botrytis cinerea, nella Cena in Emmaus la mela sul tavolo è intaccata a causa di malattie fungine, venturia inaequalis, monilia o botrytis. Con questo quadro, descrittivo e simbolico, disse che il pittore aveva desiderato «porgere al credente la possibilità di raggiungere la purezza e quindi l’integrità morale e spirituale dell’anima» e «ai comuni mortali la possibilità di intervenire a difesa delle produzioni alimentari, per preservarle dalle diverse malattie, procedendo con appropriate tecniche […], in modo da permettere così il raggiungimento della difesa della salute del corpo» (Il Rinascimento…, cit., p. 27). Per queste sue scoperte, che permisero anche di retrodatare la comparsa di alcune patologie vegetali in Europa, mentre fino ad allora si era pensato che fossero state importante dall’America, Giuseppe Fogliani meritò l’attenzione dei media mainstream, tenne conferenze, entrò in corrispondenza con i più illustri storici e critici dell’arte italiani (in particolare Mina Gregori, ma anche Vittorio Sgarbi e altri). Da Caravaggio la sua ricerca si estese ad altri artisti e letterati, che pure avevano descritto patologie vegetali: così, per esempio, la sua ricerca approdò ai sonetti delle Quattro stagioni di Vivaldi, dove si trovano descrizioni di danni da vento (primavera), da grandine e siccità (estate), da piogge eccessive e sbalzi termici (autunno), da gelo (inverno) e alla Divina Commedia, perché, come mi diceva, «Dante aveva imparato l’agricoltura dai benedettini, che, avendo trasformato intere regioni italiane, facendole diventare, da incolte che erano, terrazzate e fertili, la sapevano lunga». La vigna – mi diceva – «imbianca se il vignaio è reo» (Par. XII, 86-87) e «la pioggia continua converte in bozzacchioni le susine vere» (Par., XXVII, 125-126): dunque Dante aveva conosciuto sia il mal bianco della vite sia la taphrina pruni.

Tante volte gli ho chiesto, dopo aver compiaciutamente condiviso con lui l’apprezzamento per quel Sommo Poeta che, oltre alla teologia e alla giostra umana, così bene conosceva l’agricoltura: «ma che avrebbe dovuto fare, secondo Dante, il vignaiolo per non essere reo?». Lui mi rispondeva: «La domanda è buona. Chissà quali rimedi Dante aveva in mente contro l’oidio. Forse i Benedettini avevano qualche ricetta per contrastarlo». Quindi si riprometteva di fare una ricerca apposita.

A Caravaggio, la città, dopo aver pubblicato una sintesi delle sue ricerche nel libro Caravaggio un fitopatologo “ante litteram” (Bell&Tani), lo accompagnai nel settembre 2012, quando, alla presenza del Sindaco e dell’amministrazione comunale, tenne, con la figlia prof. Maria Teresa Fogliani, storica dell’arte, una conferenza a metà fra arte e fitopatologia, che qui desidero riproporre, rarissimo documento orale, nella registrazione che ne fu fatta, in presa diretta, in sala. Voglio ricordare che vi andammo in virtù di un collegamento, di cui fui mediatore, stabilito tra Giuseppe Fogliani e Caravaggio da Carlo Castelli che ne era originario, altro carissimo amico che qui mi piace ricordare, perché anche lui, purtroppo, scomparso … [© settembre 2019 – stefano.termanini@gmail.com]