La verità è rotonda. E rotondo è il mondo

una passeggiata sulle tracce di Parmenide

A Elea sono giunto passando per la Porta Rosa. Ho fatto la breve salita che conduce all’arco massiccio. L’ho attraversato, pensando che, forse, anche Parmenide – e chissà quante volte – ci era passato in mezzo e poi sono salito su, fino all’acropoli, al fortilizio di Castelluccio.

Il cielo era quello alto di aprile – un cielo languido e stinto – e dal Castelluccio, guardavo la costa sabbiosa e poi alta, verso nord, le case di vacanza tutte chiuse e spente, le spiagge vuote e il mare, azzurro e ancora opaco, per via della luce poco primaverile. Qui gli ulivi sono grandi e alti, da sembrare querce. Sono risceso, ripassando dalla Porta, sulla strada che ha duemilacinquecento anni e, facendo questa via, su queste pietre, ho avuto il privilegio – era il 2011 – di accompagnare Giovanni Reale. Maggiore sarebbe stato soltanto il privilegio di accompagnare Parmenide stesso, poeta-filosofo, o Zenone o Melisso, che di lui erano stati seguaci e discepoli.

Diogene Laerzio di Parmenide scriveva che era stato allievo di Senofane, ma questo probabilmente non fu, e che comunque non lo seguì. Scriveva che aveva riconosciuto quale maestro Aminia, il pitagorico, e che gli aveva fatto erigere a proprie spese una tomba che pareva un piccolo tempio, quando Aminia morì. Aminia era povero, ma era uomo eccellente. Parmenide (ca 540 a.C-450 a.C.), allora un giovane che si preparava a essere eccellente, era ricco, di «stirpe illustre». Si dedicò alla filosofia. «Per primo – affermava ancora Diogene – [Parmenide] dimostrò che la terra è sferica, che è situata nel centro, che esistono due principi, il fuoco e la terra, e che il primo ha funzione di demiurgo, la seconda di materia».

Empedocle l’agrigentino, di cui abbiamo già detto qualcosa, di Parmenide fu discepolo e successore (Suda) e, infatti, di Parmenide ritroviamo in Empedocle la teoria dei due principi, che Empedocle chiamava Neikos e Philia, Odio e Amore (17DK).

«Le cavalle che mi portano – scriveva Parmenide e la sua era poesia filosofica – secondo lo slancio della mia volontà, mi inviarono […] alla via dispensatrice di molte conoscenze». Sulla via della verità lo avevano condotto, tirandolo come su un cocchio, magiche cavalle. Il pensiero gli si era dischiuso davanti agli occhi: una porta apertasi «per le strade del Giorno e della Notte». Qui l’aveva accolto una dea. Gli diceva: «è necessario che tu apprenda tutto, tanto il cuore immobile della Verità rotonda, quanto le opinioni dei mortali, in cui non si trova verace certezza» (fr 1-2).

La verità è “rotonda”, per Parmenide, a forma di sfera, così come a forma di sfera è il mondo e l’essere. La dea gli dice che l’essere e il pensiero sono una stessa cosa; che «identico è il pensare e l’esistere» (fr 3). Ecco la verità. Se ci sia, qui dentro, l’idea che anche il mondo abbia forma di sfera è difficile dire con certezza, ma per la bellezza della sua scrittura e per il fascino e l’intuizione dei suoi frammenti, gli interpreti hanno visto nel pensiero di Parmenide un’incredibile e precoce profondità.

Parmenide, testimoniava di lui Plutarco, «ha raffigurato un sistema cosmico e mediante la mescolanza di luce e tenebra quali elementi, da questi e per mezzo di questi, rende ragione di tutti i fenomeni. Infatti ha trattato ampiamente della terra e del cielo e del sole e della luna e degli astri e ha esposto la generazione degli uomini».

Lo fece da lassù, guardando l’ampio orizzonte che oggi è di Ascea-Velia, dalla collina dell’acropoli, con il mare che sembra incurvarsi e il cielo che gli aderisce. [s.t. 22.5.2023]

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il “Libro segreto” di Gabriele d’Annunzio e la poesia delle rondini

Quando, nel maggio 1935, compare sui giornali la notizia che vedrà presto la luce della stampa il “Libro segreto” di Gabriele d’Annunzio e che sarà tutto nuovo, la curiosità dei lettori e dei critici vibra e freme. D’Annunzio aveva scelto fra le pagine che nel tempo aveva messe da parte, coperte di annotazioni; una specie di diario. Stava per tirarlo fuori, per renderlo finalmente pubblico: ci sarebbe stato lui, per com’era davvero, o un’altra delle sue infinite maschere?

Confessava a Arnoldo Mondadori: «La scelta è l’operazione più difficile dell’intelletto. E i miei occhi soffrono nel cercare. […] Ma oramai ho trovato il ritmo del libro; e mi basteranno sette o otto giorni di lavoro per compirlo» (25 nov. 1934). Vediamo qui la “bottega” del libro, il libro che nasce e che si fa. D’Annunzio prende, trascrive, monta, rielabora, invia al suo editore «fasci di pagine». L’editore gli rende, a stretto giro di posta, bozze tipografiche, che egli ritocca e aggiusta. O integra con aggiunte. Seguendo il “ritmo” che ha trovato, inventa un modo di scrivere originale: finisce le frasi con il punto, le riprende con la lettera minuscola. Forma, forgia nuove parole, secondo l’istinto momentaneo; parole nuove, inseguendo immagini vecchie dentro di sé, che il poeta vuole rinnovare. La sua prosa è poetica, così come alla letteratura avevano insegnato a fare, sopra a tutti, gli esempi francesi; la lingua, sapientissima, pare ad alcuni «una bottega di antiquariato» (A. Panzini). Altri osserva che il “Libro segreto” non ha che due temi: l’amore dell’amore e la paura della morte. Ed è così, in effetti, e non altro desiderava il suo autore.

Torna spesso il tema delle rondini, «tema di tutto il libro» (De Robertis). Scrive D’Annunzio, nella prima pagina, ricordando la sua casa natale: «La cornice della mia casa natale sportava in fuori tanto che le rondini l’avean rilavorata con la loro arte argigliosa soprapponendo alle gole ai gusci agli ovoli ai dentelli alle altre modanature senza grazia l’opera de’ nidi vivente».

Il “Libro segreto” aveva alle spalle una tradizione illustre: i frammenti di Leopardi, Baudelaire, i poemi in prosa di Rimbaud. I critici – alcuni, almeno – d’Annunzio lo avevano ormai di mira come «uno dei maggiori ostacoli» al rinnovamento della nostra letteratura (L. Guisso). Ma, pure, quelli che si erano messi in testa di scrivere diversamente e di prenderne le distanze, i “giovani” che sarebbero venuti dopo di lui, ne avevano imparato moltissimo. Emilio Cecchi, per esempio.

Vi sono, tra le pagine del “Libro segreto”, meno noto del “Notturno”, ma più estremo nello stiramento che d’Annunzio impone alle immagini e alla sua lingua, pagine autobiografiche, quasi un’automitologia, e lampi di vera ispirazione. A proposito della conoscenza e di che cosa sia, l’autore si interroga: « Qual dunque è il modo di conoscere? / Scoprire il segreto dell’Universo mal nato ne’ granelli della sabbia, nelle granella della spiga o nelle stelle della costellazione Spica Virginis, in un acino d’uva, nell’ombra di ciglia chine; / scoprire il segreto dell’angoscia nel cuore d’una rosa divorato da una cetònia non meno bella de’ petali cadenti; / accogliere l’infinito nel cavo della mano che tiene l’acqua piovana o la rondinella caduta dalla gronda; / vivere l’eternità in un’ora diurna, in un’ora notturna; / uccidere l’oscuro iddio sotto i ginocchi della preghiera.»

Non è che la poesia debba essere fatta di soli versi. Le immagini delle rondini, che «a saetta rasentano l’erba e si risollevano con un grido che sembra beccare un acino dell’ultima luce», si imprimono nella memoria. Non è bravura soltanto. L’infinita, l’ammirevole capacità di far con la lingua quello che si vuole (dicono testimonianze degne di fede che d’Annunzio il vocabolario se lo leggesse, come un romanzo proprio; che se lo tenesse sul comodino…) è la sfida imperterrita a far dire alla lingua quello che si vorrebbe rivelasse: «Chi mai saprà dire la forza laceratrice delle rondini in un vespro d’estate?». [stefano termanini]

“Vorrei rimanere qui a cantare”: Gabriele d’Annunzio a Giuseppe Treves nell’estate delle “Laudi”

«Ho passato questi giorni in una quiete profonda, disteso in una barca al sole». Era il 7 luglio 1899. Accanto alla data, la lettera riportava il luogo da cui era stata inviata: Marina di Pisa. Era indirizzata all’editore Giuseppe Treves. «Tu non conosci questi luoghi: sono divini» gli scriveva Gabriele d’Annunzio. «La foce dell’Arno ha una soavità così pura che non so paragonarle nessuna bocca di donna amata. […] Vorrei rimanere qui a cantare. Ho una volontà di cantare così veemente che i versi nascono spontanei dalla mia anima come le schiume dalle onde».

Era la stagione delle “Lodi”, «figlie delle acque e dei raggi», la stagione fatata di “Alcyone”, quando «le allodole su le pratora di San Rossore canta<va>no ebre di gioia». In quello stretto giro di tempo, proprio come pareva promettere al suo editore, d’Annunzio avrebbe composto le sue poesie più celebri.

In seguito, a molti, sarebbero parse atteggiate, eccessive. Virtuosismi, veri pezzi di bravura. E invece no: gli anni che passano hanno la forza di far vedere le cose a distanza. “Alcyone” è davvero una stagione magica e la pioggia che, cadendo nel pineto, sul margine polveroso ed esausto di un’estate che sta per rompersi, non è una rivelazione meno vera del lampeggiare dei limoni in fondo alla tortuosa strada in salita, dietro il muro di cinta amato dal Montale degli “Ossi di seppia”. Sono soltanto modi diversi di dire una stessa cosa. Sono, in fondo, un diverso modo di confermare ciò che già sappiamo: che la poesia ha senso se nasce attorno all’attesa di un miracolo (piccolo o grande), di una magia (irreale o realizzata); che è, anzi, una magia, anche quando dice poco o nulla e perfino quando l’esistenza della magia nega.

Certo, d’Annunzio amava prendersi sul serio. Molto, molto sul serio. «Alla Marina di Pisa – scriveva ancora a Treves, un mese più tardi, il 7 agosto 1899 – mentre mi rafforzavo al buon soffio del mare – mi abbandonai al fiume della poesia […]. Scrissi le prime “Laudi”; circa un migliaio di versi». Un migliaio di versi! Scritti forse in un mese. E c’erano, fra questi, composti sul tavolo accanto a quello su cui d’Annunzio lavorava al romanzo “Il fuoco”, i versi di “Elettra”, il secondo libro delle “Laudi del cielo del mare e della terra e degli eroi”. Secondo di sette, come le Pleiadi, da cui avrebbero preso il nome: Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Taigete, Asterope e Celeno.

Il secolo diciannovesimo finiva, nasceva il Novecento, il “secolo breve”, il secolo più sanguinoso, forse il più efferato, della storia dell’umanità. I piroscafi avevano reso possibile il giro del mondo in ottanta giorni, si cominciava a volare sul serio, sembrava che il mondo fosse diventato piccolo: in breve, si diceva, la civiltà sarebbe arrivata da ogni parte. Gli uomini? Ci si chiedeva se non stessero finalmente diventando “fabbri della propria fortuna”; se i tempi non fossero, finalmente, quelli in cui ciascuno potesse avere per sé quello che si era meritato, quello che si era conquistato. Non d’Annunzio soltanto, ma Musil, Mann, Zweig e molti altri scrittori ci hanno raccontato quel tempo. Il suo ottimismo splendente – splendente e più tragico, visto con gli occhi del poi. “Alcyone” è quella stagione netta, priva di ombre. Per il poeta e per il mondo che gli girava attorno. Credo che vada riletto (anche) così. Lasciando i pesi della storia e apprezzando, per una volta, la breve stagione in cui il tempo seppe essere lieve. [stefano.termanini@gmail.com]

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