Genova e il mare

110 anni fa, più o meno. Da Genova passava – prima per partirvi alla volta dell’Argentina, poi quale meta di vagabondaggi – il poeta visionario Dino Campana. La sua interpretazione del legame fra la città e il mare, che qui ci proviamo a rileggere, è tra le più sensibili e sottili del Novecento.

«Poi che la nube si fermò nei cieli / lontano sulla tacita infinita / marina chiusa nei lontani veli, / e ritornava l’anima partita / che tutto a lei d’intorno era già arcana-/mente illustrato del giardino il verde / sogno nell’apparenza sovrumana / de le corrusce sue statue superbe». Un sentimento di lontananza, la mescidanza dei colori, danzanti. La sinestesia delle apparenze, «sovrumane», e dei suoni – suoni, come ignoti turbini, indecifrabili e alti, segreti «tra le vele di spuma». È Genova, che nei segreti si annuncia, che sorge con il «torreggiare / bianco nell’aria». I mattini di Genova, il poeta li raccoglie, «innumeri» e dileguanti, sul mare – dal mare – quando «pieno era il sole di Maggio».

È Dino Campana, è Genova, centodieci anni fa. Il poeta passa, vagabondo di terra e di mare e amante di una bellezza pura che non trova in nessun luogo, sosta in piazza Sarzano, le dedica una poesia dei suoi “Canti Orfici”, ma ancora non si chiamano così, ancora sono soltanto manoscritto che aspira a diventare un libro. A scuola, Dino è impulsivo, quasi brutale. Il padre, maestro elementare, ha un fratello che i medici hanno dichiarato pazzo e teme che il figlio abbia ereditato la sua «tara» (questa è la parola).

Finito il liceo, nel 1903, Dino Campana, che era nato a Marradi nel 1885, si iscrive all’Accademia militare di Modena. Per sé vorrebbe una vita eroica. Legge Nietzsche: vorrebbe una vita nietzschiana. Dall’Accademia viene cacciato quando non ha ancora compiuto il suo primo anno di studio, forse per un litigio, una baruffa notturna. Passa un mese in carcere, a Parma. Non sarà, come avrebbe voluto, ufficiale di carriera, ma legge, studia, scrive, si isola, vagabonda. Si iscrive all’Università di Bologna, facoltà di Chimica, ma nella primavera del 1906 fugge da una vita che, in fondo, non vuole. Passa da un treno all’altro: gira così la Svizzera, nascondendosi nella ritirata ogni volta che teme che lo scoprano. Non ha biglietto. Dalla Svizzera arriva a Parigi e, quando torna a Marradi, il padre lo fa internare. Scrive, il padre, al direttore del manicomio di Imola, che il figlio «ha la psiche esaltata, avvelenata, pervertita, non sente affetti e prende presto a noia luoghi e persone». Dino passa due mesi in manicomio, dal 4 settembre al 31 ottobre, poi la famiglia decide di mandarlo via, lontano, il più possibile lontano da casa. Nel 1907 lo zio Torquato lo accompagna a Genova – ed è lì che Dino l’incontra – da dove parte un bastimento per l’Argentina. Nella Pampa farà ogni genere di mestieri: il bracciante, il pompiere, il suonatore di triangolo in una banda.

Nel maggio 1908 si imbarca come mozzo sulla nave Odessa, torna in Europa. Gira a piedi tra l’Olanda, il Belgio e Parigi, a piedi ritorna in Italia. Nel 1909 il padre lo riporta in manicomio, ma ne viene rilasciato: i medici dicono che non è pazzo; non da ricovero, almeno. Seguono anni di studio intensissimo e, nel 1912, Dino Campana, con la sua «lunga capigliatura biondo-rame, folta e ricciuta […] due baffetti che s’arrestavano all’angolo delle labbra, e una barbetta economica» (Ravagli), è di nuovo a Genova. Scrive i suoi “Canti Orfici” nel 1913, un’estate trascorsa a Genova, «sempre bestialmente perseguitato e insultato» (come disse di sé in una lettera a Emilio Cecchi). Ai “Canti” assegna un’importanza suprema: «dovevano essere la giustificazione della mia vita», ne scrive. A Firenze Giovanni Papini li legge, loda il poeta, gli rende il manoscritto. Poi se lo fa ridare, promette che lo pubblicherà. Non lo pubblica. Dino Campana si dispera, fa lavori occasionali, soffre il freddo e la fame, scrive e riscrive a Papini, «5 o 6 volte inutilmente». Quindi decide di riscriverlo, a memoria, quel manoscritto perduto e giura di vendicarsi, se mai potrà. I “Canti Orfici” vedranno la luce a Marradi, nel luglio 1914, presso il tipografo Bruno Ravagli.

Piazza Sarzano

Me lo sono chiesto spesso: perché proprio quella piazza? Genova, che pure non è una città di piazze, ne ha tante. Ne ha di ampie, come piazza della Vittoria, di lastricate e monumentali, come piazza De Ferrari, di antiche, come piazza Banchi, e antichissime, come piazza San Matteo e piazza San Donato. Ne ha di tonde e aiolate, come piazza Corvetto e ce ne sono certe con bellissime fontane di marmo, come piazza Colombo e Campetto. Ma piazza Sarzano? Che ha piazza Sarzano, che pare una palpebra, con il mare di qua e il vicolame del centro storico e la via di Ravecca e il museo di Sant’Agostino – non dentro l’occhio, però, ma fuori, sui margini….? Non della piazza, ma di tutto ciò che l’insidia e la nega: che ha?

«Andiamo!»: pare un motto, il segno di una sua ispirazione a tratti e a folate. Inquieta, vagabonda, intessuta di sogni. Quando passò da Genova, Dino Campana, dedicò proprio a Piazza Sarzano una pagina dei suoi “Canti Orfici” (1914).

È una poesia in prosa, sul modello francese, e dice: «A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate».

Lo colpiva – colpiva la sua fantasia – la «fonte sotto una cupoletta», il pozzo, ove «acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano». La torre di Sant’Agostino, policroma, le sue «quadretta svariate di smalto», «un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiare, sopra i vicoli il velo rosso del rosso mattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio».

La piazza, nella poesia, si anima di cadenze, un fanciullo la percorre in tutta la sua lunghezza. Fa il resto la luce, i colori: i colli verdi e il chiarore del mare, la donna bianca che appare a una finestra. Fa il resto il silenzio: il paesaggio si riveste di immobilità e di gioia inesauribile. Scende la notte: «è la notte mediterranea».

Pochi altri, quanto il visionario Campana, il folle di Marradi, hanno compreso e ritratto la genovese bellezza delle «terrazze verdi ne la lavagna cinerea», dove «dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto», «la sinfonia feconda urgente al mare», la folla che sale veloce e «la febbre della vita», l’«azzurro serale», la vastità e la bianchezza, il «groviglio delle navi» nella «grande luce mediterranea» «e dal fondo il vento del mar senza posa».

Dino Campana, poeta visionario ed errante, per cui le cose, tutte le cose, sono molteplicità di sensi e di immagini, morì nel 1932 a Villa di Castelpulci, in manicomio. Vi era stato rinchiuso 14 anni prima con la diagnosi di psicosi schizofrenica irreversibile. [set 2023 | stefano termanini]