
Chi siamo noi, nella città capitale del libro 2023
Ora che si è scoperto che Genova è la capitale del libro 2023, qualcuno sui media si accorge di noi editori. Ma noi eravamo qui da anni, perché la perseveranza a cui la nostra passione ci porta, per noi, è quasi un vizio. Questo nostro mestiere è fatto così. Non è uno soltanto, sono tanti, tutti insieme. E se mancasse questa passione quasi viziosa, questa perseveranza che è ostinazione a star dentro le nostre stanze foderate di carta scritta, chi ce la farebbe fare?
Ora che si è scoperto questo che poi ci diranno se sia titolo o premio o responsabilità o una delle molte etichette che ci servono per orientarci nel mondo – questo nuovo attributo della “capitale del libro”, giunto sulle ali potenti dell’immagine delle “pagine spiegate” – si va a guardare nel cofano del motore, si scorre la carta d’immatricolazione, la scheda tecnica dell’editoria cittadina per dirci che è gracile, troppo gracile e chissà perché. «Perché a Torino c’è Einaudi? perché a Milano c’è Mondadori? E a Genova…?»
Vorrei provare a rispondere – anzi, voglio rispondere. Devo rispondere. Quando Mondadori nacque, nacque piccola. Tutta la nostra migliore tradizione editoriale – fin dagli albori – è fatta di grandi e individuali personalità, di interpreti dal forte carattere e di piccole imprese. Einaudi? Anche Einaudi nacque piccola. In «Lessico famigliare» Natalia Ginzburg ha scritto pagine piene di sapore e di vita per raccontarci come fu che nacque e quale aria vi si respirava e come Felice Balbo corresse, in quei primi anni, da una parte all’altra e sempre fosse (e lo fosse ovunque) in conversazione con uno e con l’altro; come fosse severo Cesare Pavese e quanto veloce rileggesse le bozze e come, con voce tonante, quasi seccato, rispondesse che «di progetti la casa editrice ne aveva già e fin troppi». Ma a me piace moltissimo quel che di una casa editrice (e certo anch’egli aveva in mente l’Einaudi, nata da appena un anno) Arrigo Cajumi scrisse sulle pagine di «Nuova Letteratura»: «Una casa editrice non è una società anonima diretta da un uomo d’affari, con dei consiglieri tecnicamente competenti. È un uomo che legge, da solo; fa i conti da solo, e nei ritagli di tempo fa il libraio, e, se è necessario, scrive. Se c’è un’industria modesta, da tener sul piede di casa, e da governare con un padrone, è quella dello stampar libri. Bisogna esser tipografo, mercante, pennaiuolo, per starci a galla. Avere delle manie, delle settarietà: il pubblico vi viene dietro, sa a priori quel che gli darete. La vostra sigla è una garanzia. E c’è una tradizione da mantenere: di punto in bianco uno non può sostituire alla letteratura, la scienza, al vecchio autore, il poppante». Ed è anche oggi – almeno per chi non fa compromessi, per chi tiene alla propria indipendenza – così: l’editoria è un’industria “modesta”, che ha bisogno di riunire tutte le professioni in chi la fa, che ti richiede di rinventarti ogni giorno, che ti domanda continuamente conferma di te, che ti vuole di volta in volta diverso. Forse nemmeno è un’industria. Anzi, io sostengo che non lo sia. È un’attività, è un’impresa e, come tale, a galla deve pur starci. Ma è anche molto altro: una garanzia, una tradizione, una sigla. Noi editori ce l’abbiamo questo orgoglio e tanto più noi che, quando stampiamo un libro, ci mettiamo sotto il nostro di nome, non qualche altro nome mitologico o di fantasia. Noi che ci mettiamo il nome nostro e della nostra famiglia e che lo facciamo girare per quel pezzo di mondo in cui ci riesce di arrivare, stampato sopra centinaia di migliaia di oggetti, alcuni dei quali – è la nostra smodata ambizione ed è il compito delle biblioteche – si conserveranno probabilmente per centinaia e centinaia di anni. Non è una mania, questa?

Industria o artigianato?
Se c’è un settore in cui la dimensione non conta, è quello dell’editoria. Ma l’editoria è anche uno dei settori in cui la dimensione conta di più. Mi spiego: per produrre automobili veloci, sicure e convenienti, per produrre computer che siano performanti, occorre avere impianti, tecnologie e fabbriche. Bisogna essere “grandi”. Nell’editoria, invece, non c’è bisogno di essere “grandi” per fare buoni libri (anzi, talvolta, va al contrario). Eppure la dimensione conta. Proprio perché i libri non sfrecciano lungo le strade, sono modesti e discreti, non si sbandierano quasi mai e se ne stanno – qualche volta per secoli – al posto che gli è assegnato sugli scaffali, se non si è “grandi”, non si è visti. Se non si è “grandi”, dal momento che la quantità si misura molto meglio e più immediatamente della qualità, non si produce abbastanza per essere notati.
È un paradosso, lo so. Il nostro è un settore in cui nei paradossi ci si inciampa a ogni passo ed è soltanto per esperienza o per miracolo se non ci si annega; il nostro è un settore paradossale. Si dice, per esempio, dell’“industria editoriale”, non c’è niente di più lontano dall’industria dell’editoria, che si esprime, infine, nei suoi caratteri originari e migliori, proprio in quel connubio fra chi scrive e chi legge e nella cura di una relazione che non può essere, se non personale. Siamo artigiani che conoscono a menadito la carta e l’inchiostro e che accomodano la materia e l’idea; siamo sarti che tagliano su misura e sappiamo chi abbia braccia lunghe e spalle strette e chi richieda un’aggiustata sui fianchi e chi sulla pancia; siamo, per ogni autore, disposti a divenirne l’amico più intimo e più sincero. E non per convenienza, per mestiere o per finta. Per natura.

Quello che abbiamo fatto (con le nostre sole forze)
Abbiamo lavorato da quasi ormai vent’anni. Letto migliaia di libri, centocinquanta li abbiamo pubblicati. Alcuni, talvolta, abbiamo cercato di ispirarli, condividendo e costruendo progetti. Altri li abbiamo pensati con i nostri autori. Una o due volte ci siamo immedesimati a tal punto con loro e con le loro storie che i loro libri sono diventati anche i nostri e li abbiamo scritti insieme.
Per dire soltanto dell’anno scorso: sulla Libia e le sue popolazioni abbiamo pubblicato probabilmente il solo libro che, in Italia, giunga a un simile grado di dettaglio e di consapevolezza. E’ opera del professor Carlo degli Abbati, che ha pubblicato, sempre con noi e sempre l’anno scorso, un importante libro sull’Europa. Il suo saggio sulla Libia lo abbiamo fatto uscire in italiano e in inglese. Il generale CA dei Carabinieri Pietro Pistolese l’anno scorso ci ha scelti per dare alle stampe il suo “In volo su Versailles” a 100 anni dalla Conferenza di pace di Genova: è un libro ricchissimo, che abbiamo portato a palazzo Tursi e a Trento, che presto verrà presentato a Roma. Abbiamo scoperto la fluida, saporosa prosa di Claudio Gava e abbiamo pubblicato il suo “Uter!”, presentato a Sernaglia della Battaglia e Vittorio Veneto; ci ha colpiti il realismo magico di Giacomo Gavarone, autore puntuale e sorprendente, che ci ha raccontato del circo “Grande Mauritania” e che altro di nuovo sta già promettendoci. E poi, passando dalla terra al cielo, abbiamo scoperto e fatto scoprire ai nostri lettori la “fantascienza umanistica” di Filippo de Grenet e pubblicato il suo “Ombre Azzurre”. E, per gli amanti della storia, abbiamo dato alle stampe l’avvincente “Cacao” di Fabrizio Lena e il saggio di Franco Cascini “Viaggio nell’Età dell’Oro”. Daniela Gerbaldo ci ha spiegato come le Donne “pe(n)sano” e come alimentarsi al in modo corretto. Stefano Arezzi, carissimo amico, ci ha affidati, anteponendovi una bellissima introduzione, i “Ricordi di Guerra” di Umberto Serra, suo nonno, un testo meraviglioso e verissimo, abbozzato nelle trincee della Prima guerra mondiale e poi riscritto, per tutta la vita. Al Festival della Scienza di Fermo, Fermhamente, abbiamo lanciato due libri originali, di autori originali: STEAMPEOPLE del matematico Andrea Capozucca, con cui si insegna a “tenere insieme” discipline scientifiche e artistiche e a imparare dalle une e dalle altre, con reciproco utile, e il “Manuale di Fantasiologia” della “fantasiologa” e creativa Maddalena Vantaggi, libro-vademecum per un mondo in cui la sostenibilità è necessaria. Due i libri di poesie: il pluripremiato “Tra le parole e il sale” di Paolo Castagnola e “Or si frange l’onda” di Antonietta Bocciardo. E poi è uscito un libro-caposaldo, pieno di rigore e di scienza: “Uccidete Calaf!” del professor Roberto Iovino, già direttore del Conservatorio, pubblicato per i suoi 50 anni di critica musicale. E gli Atti del convegno dedicato a “Paganini: genesi ed eredità di un mito”, con i contributi più nuovi e alti su Paganini e sulla sua eredità, a cura dei maggiori studiosi paganiniani (pubblicare su Paganini non è, forse, un mettersi al servizio del maggiore testimonial che la città abbia?). Senza il lavoro di Simonetta Spinelli e il nostro libro “Foglie Vento Sabbia” Genova non avrebbe celebrato la grande artista, genovese e internazionale, Luisella Carretta a un anno e mezzo dalla sua scomparsa. Anche questo abbiamo fatto e crediamo di averlo fatto per Genova, così come, l’anno prima, è stato nostro il libro più completo sulla storia del ponte (con le fotografie di Roberto Orlando): dal tragico crollo del Morandi alla ricostruzione del Genova-San Giorgio. Era quasi Natale quando, con la collaborazione di AMT, Marco Marchisio ci ha raccontato de “Le tre funicolari di Genova” e di quella città storica, tradizionale e da riscoprire che ancora vi vive attorno. Claudio Senzioni e Dino Frambati, con la prefazione di Vittorio Sgarbi, hanno raccontato la storia dell’Aeroclub di Genova nel loro “Volare e Vincere. L’incredibile storia dell’Aeroclub di Genova”. Lo abbiamo pubblicato con il supporto di una fra le principali Fondazioni culturali della città, che, come noi ci ha creduto: la Fondazione Pallavicino. Per non dire di GUD, la rivista che è da tre anni ormai, un laboratorio di idee e una delle più grandi ragioni di orgoglio per noi – l’abbiamo ripresa, con il dAD l’abbiamo rimessa in piedi, oggi è una vivace “scatola di pensieri”. Infine (ma solo per ora), tra una settimana, la professoressa Donatella Mascia presenterà il suo nuovo romanzo: “L’urlo nella notte”. Negli anni scorsi abbiamo avuto l’opportunità, spesso l’onore, di imparare, facendo con loro un tratto di cammino, dalle intelligenze di Marco Lavarello, Bruno Musso, Franco Monteverde, Vincenzo Guerrazzi, Giuseppe Fogliani, Giorgio Cavallini, amici luminosi che hanno illustrato la Città (il Paese) e la nostra casa editrice e che non ci sono più. Noi abbiamo pubblicato alcuni loro libri, che continuano a essere con noi e con i nostri lettori e che continuano a farceli sentire vicini. E poi voglio citare, fra “i tanti che non sanno di averci dato tanto” (è proprio Marco Lavarello che mi ha insegnato a dire così…), tutti in piena attività: Alessandra Lancellotti, con la sua “voglia dirompente di rinascere” a ogni nuovo progetto e con i tanti che abbiamo condiviso, a cominciare da quello, impegnativo e bellissimo, per il nostro libro dedicato alla storia del Ponte; Gianamedeo Trabucco, per l’intensità della sua pittura e della sua prosa, perché in un mondo arido conosce e con l’esempio insegna la bellezza del dono; Emilio Franzina, per quanto ha scritto e curato sull’emigrazione italiana in Sud America; Fabio Capocaccia e Michele Trenti, per i loro saggi (e il loro impegno senza posa) al servizio della cultura della città; Enrico Volpato, inesausto progettista di cultura musicale per la Città, anima degli Amici di Paganini e tuttora loro presidente onorario; Donatella Mascia, con la vivacità di ogni suo libro, compreso quello, tutta freschezza, scritto con Carolina Mantegazza, sotto la regia di Mario Fuselli; Annamaria de Marini e Paolo Tachella, che conoscono ogni segreto dell’Albergo dei Poveri e della Genova tra Sette e Novecento; Maria Rosa Moretti, che la vita e l’opera di Paganini ha fatte proprie giorno per giorno; Roberto Trovato, grande maestro, che tutto sa di teatro (e non solo); Gianfranco Ricci, “laico” che si riconosce “in cammino” (e chi non lo è?); Anna Giaufret che, con Hélène Giaufret Colombani e Martina Massarente, ci ha raccontato la storia di Aimé Sterque; Rita Parodi Pizzorno, autrice delicata che come pochi altri ama Genova e la poesia; Maria Cicconetti, che vive intensamente ogni emozione e sa leggerle negli occhi degli altri; Gino A. Torchio, che indaga nelle relazioni fra le persone; Giuseppe Valesio, che si addentra nei “Ricami dell’anima”; Maria Luisa Bressani, che ha scritto una delle più limpide e acute raccolte di articoli-saggi che io abbia mai letto; Daniela Mannucci, che ha combattuto e combatte le parole che “avvelenano” la nostra vita e Armando Ricci, che tante volte ci ha insegnato a mettere umanità (e anima) nel pc; Dino Frambati, che da sempre si schiera (oltreché a fianco dei giornalisti) perché la “buona notizia” superi la “brutta” e faccia proseliti… Grazie a tutti. Voglio nominarli qui, parlando di Genova capitale del libro (e ancora li ricorderò e altri ricorderò): hanno affidato a noi i propri pensieri perché ne facessimo libri. Un editore deve fare anche questo, oltre a far libri. Deve promuovere i propri autori; deve “difenderli”.
Per quasi mille volte, nelle più splendide sale della città e davanti a oltre cento persone, in palazzi aulici, in umili stanze nascoste dietro le macchine caffettiere di qualche bar di frazione, in qualche palestra fredda, oppure poco ascoltati ma allegri, tra i tavolini di uno stabilimento balneare, o in giacca blu sotto il sole d’agosto, abbiamo parlato di libri con i nostri autori e con i nostri lettori. Lo abbiamo fatto più a Genova, in Liguria e Piemonte, ma comunque in tutta l’Italia. E in migliaia di occasioni, leggendo libri brutti e belli, gioendo per la scoperta di un nuovo autore, seguendolo nel suo intrapreso cammino, correggendo le pagine di un altro, parlando con le persone – con tutte le persone – abbiamo avuto la meravigliosa, la straordinaria opportunità di imparare. Una casa editrice è questo luogo, ove la vita passa sempre, come un fiume, coi i suoi greti e le sue fonde, con le stanche e con le rapide, con i pantani e con i gorghi. Passa vera e la vedi da vicino; eppure da dietro un vetro. Ti ci immergi, ti ci sporchi le mani, eppure ci vai flottando in cresta di superficie. E sempre incontri, sempre ripensi, sempre raccogli, da chi passa e qualcosa lascia.

Perché noi editori genovesi siamo “piccoli”
Perché siamo piccoli? Potrei rispondere in forma quasi poetica che siamo come i coltivatori di questa nostra regione di spazi angusti. Siamo coltivatori di orchidee, di acanti e di limoni. Gli altri hanno costruito le cattedrali e noi, nelle montagne, abbiamo intagliato le fasce, diceva Giovanni Boine: ora, ciascuno di noi, come tanti appassionati giardinieri, tira via le erbacce e fa crescere, nello spazio della propria fascia, l’essenza che più gli piace – e ci si dedica, notte e giorno, perché, come per le cattedrali, come per gli uliveti di Liguria, questo paesaggio si fa giorno dopo giorno e un po’ alla volta ed è fragile e basta un po’ di pioggia cattiva o una gelata a devastarlo.
Siamo piccoli? Potrei rispondere con il nostro carattere e con la nostra personalità, che sono vivaci in ciascuno di noi. E va pur bene che quell’industria di cui si parla sia difficile da governare, ma non ci si tolga almeno il nostro carattere e la nostra personalità e la nostra tradizione e la nostra sigla e la coerenza a cui questa e quella ci trattengono.
Siamo indipendenti ed è per questo che siamo piccoli. Indipendenti gli uni dagli altri (e qui aggiungo: troppo! Speriamo che l’anno di Genova capitale del libro ci aiuti a ritrovarci) e indipendenti dagli altri. Fatemi dire una cosa scomoda e anche molto scomoda. I “grandi” non hanno l’obbligo di «starci a galla», con l’editoria. Per i grandi, spesso, paga Pantalone. I grandi fanno parte di gruppi, anch’essi grandi, dove l’editoria è una funzione. Una frazione. Una specie di ufficio stampa, la punta di un iceberg. Non importa che al di sotto, più sotto, ci sia solo ghiaccio. Ed è questa – io penso – la principale ragione storica per cui, nella stagione in cui in altre città d’Italia le case editrici crescevano fino a diventare grandi, a Genova sono rimaste piccole. Che, cioè, nelle altre città d’Italia in cui la trasformazione c’è stata, quasi sempre si è celebrato il connubio con la grande industria nazionale privata, mentre a Genova la grande industria era pubblica e l’industria pubblica, salvo qualche lodevole esperimento di riviste aziendali, aveva orizzonti e obiettivi e ambizioni diverse dall’autorappresentazione che l’editoria le avrebbe garantita.
L’editoria “di gruppo”, quella che – per usare le parole di Gian Arturo Ferrari in «Storia confidenziale dell’editoria italiana» – porta il giogo di Mammona, è posta nelle mani degli «ingegneri» (Ferrari li chiama così). E quelli «non sono dei malvagi di nascita, semplicemente non conoscono altra logica, non hanno orecchio per i libri». Quegli altri, quelli che i libri li amano, loro li compatiscono («Ma andiamo», riferisce Gian Arturo Ferrari di uno di loro, riportando quel che diceva a proposito di una linea editoriale, «rende quanto una drogheria!»). Oppure li invidiano; sotterraneamente, ma li invidiano. Sanno che loro – gli altri – hanno un talento speciale. I libri, dalle nostre parti almeno, qualcosa di magico ce l’hanno sempre.

E, quando dico “libro”, dico “libro”
Ci sono amici e lettori che mi dicono di preferire il libro per via dell’odore della stampa. O della carta. Per via della sensazione che dà loro tenere la carta fra i polpastrelli – magari accarezzandola un po’. Altri mi dicono che «come si sottolinea un libro, certo non si sottolinea un ebook» (e li capisco, anche se non li approvo). E poi ci sono quelli a cui piace riempirsi gli scaffali di libri come oggetti di arredo – nella stessa misura in cui, almeno fino a qualche anno fa, i direttori dei quotidiani si facevano intervistare davanti alle loro Treccani, disposte su pareti intere. Non ho niente contro gli uni né contro gli altri. Non ho niente contro il feticismo del libro: anche quello ci sta. Il libro, però, almeno secondo me (ci ho pensato tanto!), va difeso non per la sua carta o il suo inchiostro e nemmeno per i suoi dorsi colorati che ci fanno fare bella figura, messi in ordine accanto ai quadri o alle stampe numerate d’autore, quando invitiamo gli amici a casa nostra a pranzo. Ecco, dunque, alcune buone ragioni (pure e pratiche) per cui penso che il libro vada difeso contro ogni minaccia e ogni insulto. Comincio dalla più pratica:
1. perché, anche se pare così fragile che un acquazzone può rovinarne la bellezza e spesso anche l’integrità, il libro è il più sicuro degli strumenti inventati dall’umanità per trasmettere il proprio pensiero attraverso il tempo. Tutto ciò che vent’anni fa abbiamo scritto sui floppy disk da 5 pollici e ¼ è come fosse perso, ma leggiamo i papiri del 2700 a.C.
Continuo con la più culturale:
2. perché un libro, specie nel progresso del tempo, è chi lo ha scritto, chi lo ha composto e tutti coloro che lo hanno letto e l’esperienza di tutti assomma e fa consistere nella sua consistenza.
Ne aggiungo una biologica (ma anche spirituale):
3. perché il libro ci assomiglia. Il libro, infatti, è un oggetto dotato di uno spirito e non c’è niente al mondo che sia più simile a noi, oggetti-corpi dotati di pensiero e intelligenza e (se mi consentite di dirlo così) spirito.
Giungo a una ragione neuroestetica:
4. perché il libro è analogico, così come noi siamo analogici; perché la nostra memoria, la nostra “mente” (si veda per es. il celebre Manfred Spitzer “Demenza digitale”) funziona meglio, con migliore attenzione e senso critico, se applicata a soggetti-oggetti analogici, invece che immersa in un nuovo brodo primordiale di cellule-bit.
Me ne viene in mente una etica:
5. perché, nonostante tutte le scelte che possono fare gli editori, nonostante tutti i “filtri” che possono imporci i critici letterari, le giurie e i professori, l’Indice, l’Inquisizione, i totalitarismi, la propaganda e il Minculpop, leggere un libro tolto dallo scaffale di una biblioteca o di una libreria è e sarà sempre una scelta e un’azione libera, per mezzo della quale eserciteremo la nostra libertà.
E pure non dimentico che, dal punto di vista sociale:
6. proprio perché il libro è un oggetto, che io presto e “passo” e acquisto e regalo e affido e lascio ed eredito, il libro è relazione fra gli esseri umani. Relazione e relazioni: quelle che nascono ex nihilo, grazie al libro, e quelle che si rafforzano (che gran segno di amicizia è dar da leggere all’amico il libro che ci ha fatto pensare, piangere, sapere, sognare, amare…!); relazioni tra pari e dispari. Relazioni impossibili: tra vivi e morti. Relazioni che continuano: fra chi c’è ancora e chi se n’è andato via.
Chiudo (provvisoriamente: spero che lungo quest’anno se ne potrà riparlare e molte molte volte ancora) con la fisica:
7. il libro è un blocco di fogli stampati, ha una base, un’altezza, una profondità. Ha un peso. Occupa uno spazio. È fisico ed è perciò presente, nelle nostre vite, dove vogliamo che sia, dove l’abbiamo posato e, sia anche in un posto dove da anni prende polvere, resta pur sempre lì ad attendere che noi ci si riaccorga di lui e lo si riprenda in mano.
Al contrario, ciò che non è libro, è testo. Comodo, portatile, leggero. Quella della leggerezza è, ai nostri giorni, una lusinga pericolosa. Se i libri non ci faranno da àncora e da zavorra, io temo che finiremo per nuvoleggiare, riversati in metaversi leggeri e multiversi immateriali, dove tutto sarà a portata di mano e niente sarà vero.

Che cosa è e che cosa non è una (piccola) casa editrice
Per l’Istat un editore “piccolo” pubblica da 1 a 10 opere all’anno. L’editore che ne pubblica da 11 a 50 è “medio”. L’editore “grande” ne pubblica oltre 50. Noi, dunque, con le nostre poco più di 20 opere/anno, per l’Istat siamo editori medi. I numeri hanno la loro cruda, qualche volta cinica verità, ma devono essere interpretati. Una casa editrice, infatti, dovrebbe potersi dire “piccola”, “media” o “grande” più che per il numero di libri che pubblica ogni anno, per il numero di libri che ogni anno fa circolare e, più ancora, per la qualità dei libri che ogni anno (cioè con coerenza, confermando una propria vocazione, anno dopo anno) pubblica. E poi si dovrebbe poter misurare quanto si sia nuovi nel pubblicare un libro e quanto si sia coraggiosi; quanto, con quel libro, si sia stati capaci di parlare e far parlare; quanto, in prospettiva, si cerchi di costruire per il futuro. Ovvero, per durare e non per imbrattare preziosi fogli di carta.
Una casa editrice, per quello che ne so io e per come l’ho vissuta e la vivo, è un luogo in cui si portano ogni giorno idee e dove le si discutono. Dovevano essere così le Università tra Medioevo e Rinascimento. Un luogo in cui le persone arrivano con le proprie ambizioni e i propri sogni, con i propri segreti e con quello che hanno di più caro di sé: la propria storia, il desiderio di tramandarla ai propri figli e nipoti (magari anche ai pronipoti). È animata da questa mefistofelica ambizione una casa editrice: durare, sopravvivere. Ma è anche candidamente umana e, per come si adopera a raccogliere i frammenti delle vite di ciascuno, deve saper essere umile, paziente, francescana.
Si leggono libri, si fanno libri; e poi li si porta in giro. A me non basta vederli sui banchetti e sugli scaffali, in attesa che qualcuno se ne incuriosisca. Così succede anche con l’occhio vivido del pesce, con le sue squame lucenti: il passante punta il dito e dice «questo. Pésamelo che me lo porto a casa». A me piace che i libri siano come un focolare attorno al quale ci si raccolga. In questo modo noi i libri cerchiamo di portarli in giro e di presentarli e di farne parlare, perché entrino, così, fra le maglie del nostro tempo quotidiano. E in questo modo si incontrano anche i lettori e le loro vite e le loro storie e le ambizioni, che sono alla fin fine di tutti e di ciascuno, di far di sé un libro, come un messaggio in una bottiglia affidata al tempo, che è ben più vasto e imprevedibile dell’oceano, perché si vada là dove non si sa. Oltre l’effimero, oltre la labilità.
E quindi noi, se lavoriamo bene, siamo come levatrici. Siamo quelli che aiutano i pensieri a nascere. Siamo un po’ insegnanti e un po’ fratelli; qualche volta genitori, altre volte figli. Come i chirurghi, noi siamo quelli a cui vengono affidate segrete ambizioni impossibili: l’eterna giovinezza, l’immortalità. Noi sappiamo di essere pericolanti, in equilibrio sul filo dell’equilibrista; basta uno iota perché la gratitudine e la soddisfazione diventino rancore. Se l’equilibrio si incrina, se il filo si spezza, il mago (che non si è mai presentato per mago) viene additato come il venditore di illusioni (che non è mai stato). Sì, anche se lavoriamo bene, anche quando abbiamo fatto tutto bene, il nostro lavoro è sempre rischioso. Può essere – come spesso è – impagabile e impagato.

Che cosa vorrei dalla Capitale del libro 2023
Vorrei che ci si accorgesse del nostro lavoro. Non per vanità. Per fare di più e fare più veloce quello che non si è fatto e che non si è riusciti a fare.
Vorrei che si pensasse a un programma per ridare dignità e valore alla cultura e alla lettura. Oggi molti giovani sognano di fare gli informatici e i medici perché le serie televisive e i nuovi media hanno spiegato loro che praticando quella via si diventa ricchi e potenti. Vogliono diventare campioni, perché si guadagnano fama e ricchezza. O influencer, per essere ammirati e all’ultima moda; per lavorare poco e fare molti denari. Occorrono nuovi modelli e vorrei che si lavorasse per quelli. Poniamoci obiettivi difficili, anticiclici, controtendenziali! Vorrei che la cultura e la lettura riprendessero prestigio sociale. Vorrei che la professione del libraio, dell’editore, dell’insegnante, anche se «si guadagna meno che in una drogheria», avessero davanti a tutti il valore e la dignità che meritano. E che l’avessero di per sé: perché è vero che, se sai, non hai paura. Se sai, sei libero.
Vorrei che ci fossero più risorse per chi fa libri, per chi li legge, per chi li vende. Per le biblioteche, per le emeroteche. Anche le nostre – come scrivevo – sono imprese. Anche noi dobbiamo fare i nostri bravi bilanci. Anche noi abbiamo il problema della sostenibilità. Anche noi, se per davvero crediamo che la cultura nel nostro Paese, sia importante, dobbiamo porci ogni giorno l’obiettivo di crescere e tornare ogni sera a casa con qualcosa di più nella lista delle cose fatte e qualcosa di meno in quella delle cose da fare.
Vorrei che le spese in libri fossero detraibili. Quando diciamo che occorre investire in cultura siamo sinceri o no? Vorrei che si potesse scegliere se pagare una tassa o comprare l’equivalente in libri (e vorrei – benché questo non sarà, forse, possibile – che, per tutto il tempo in cui si legge, come si diceva una volta dello stare a tavola, non si invecchiasse…).
Vorrei che si tornasse a insegnare la misura del tempo che occorre alla lettura – e che non è quello di Tik Toc, né di Instagram, né di Facebook. È una premessa necessaria, se si vuole insegnare a leggere di più e con più gusto. È un insegnamento salutare, in ogni caso, un allenamento alla concentrazione, alla dedizione, alla perseveranza che ci vogliono per conseguire ogni obiettivo che ci si proponga nella vita. Proprio come ci vuole concentrazione e costanza (perché è vero che il libro è metafora e palestra della vita) per arrivare alla fine di un libro.
Vorrei che, per Genova, l’occasione di quest’anno da capitale del libro lasciasse un’eredità permanente. Vorrei un’eredità che fosse diffusa e che ce ne fosse per tutti; non che fosse di pochi. “Vetrine” per i libri, festival, nuovi accordi per migliorare produzione e distribuzione, nuove “piazze del libro” a cui le persone – tutte le persone – possano avvicinarsi, senza reverenza e senza timore, perché tutti compiono i primi passi traballando e chi tanti passi ha ormai compiuto nel campo della cultura sa che si continua a traballare anche dopo. Che si traballa tutti e sempre.
Vorrei molte altre cose, che so di sapere dentro di me, da qualche parte, ma che ora non mi sovvengono con la limpidezza che mi occorre per scriverne. Ma c’è già l’entusiasmo e la limpidezza la troverò più avanti. Già so che vorrei che di libri si parlasse mattina e sera, in ogni luogo della città. Vorrei che si fosse consapevoli che i libri ci fanno migliori – vorrei che non ci desse pace per cercarne ogni giorno la prova. [stefano termanini | 13 marzo 2023 | stefano.termanini@gmail.com]