Una “scuola di lettura” in ogni libreria

Non si tratta soltanto di salvare le librerie e i libri. Anche. Prima la vita era “fluida”, poi è diventata torrenziale. Ma i libri restano boe.

Fa male la notizia di una libreria che chiude. Fa più male se si tratta di una libreria “storica”, di quelle animate da librai che ai libri vogliono bene. Chiudi una libreria e uccidi un quartiere, un tessuto di relazioni, una rete di incontri, un luogo di occasioni, di pensiero e di civiltà.

Ci siamo accorti di quello che è accaduto con le edicole? “Vendiamo soltanto la mattina” mi diceva il giornalaio all’angolo della strada. “Tanto vale tenere chiuso il pomeriggio”. I suoi orari si sono via via accorciati – l’inverno era dura star barricati nel gabbiotto con la stufetta accesa e, quando pioveva, il chiosco dell’edicola sembrava una scialuppa da rinzaffare. Con quegli orari così corti, se la mattina mi dimenticavo di comprare il giornale, perché ero di fretta o perché avevo preso un’altra direzione, era finita. Per quel giorno l’avevo perso. Alle 13,30, l’edicola era già sbarrata. Qualche volta alle 13 i giornali erano finiti. “Tutti? Allora non è vero che non si legge?” chiedevo all’edicolante. “No, è che ce ne mandano meno”… Insomma, a suon di accorciare gli orari per via del fatto che i lettori ormai si erano accorciati, si sono sempre più accorciati anche i lettori. E poi, da quando, purtroppo, l’anziano giornalaio ha lasciato per sempre il suo chiosco, partito per una destinazione in cui le parole non si pronunciano più, l’edicola è stata chiusa. Fasciata sui quattro lati della saracinesca verde che ogni mattina la sfoderava, profumata di carta inchiostrata, l’edicola è da allora come una lattina di conserva che abbia superato la data di scadenza. Sta lì, abbandonata, in attesa di smaltimento. Prima era un angolo vivo di città, con le macchine che ci si fermavano davanti, in doppia fila e gli autisti degli autobus che, slalomando, imprecavano; con le persone che andavano e venivano, lettori abituali, abitanti del quartiere che si salutavano. I turisti chiedevano una cartina, un’indicazione. Scendeva dall’auto, piantata davanti a quattro frecce, un celebre architetto, un novantenne dinoccolato e ganzo che da quarant’anni, ogni mattina, comprava i suoi due giornali. Con l’edicolante si davano del tu. Passavano i padroni dei cani, a chiedere l’inserto del “Secolo XIX” dedicato alle gite fuori porta con i nostri amici animali (se mai è stato pubblicato). Così via. La vita, insomma. C’era la vita, in tutta la sua variegata, multiforme, scomposta e odorosa complessità. Ma, da quando l’edicola è chiusa, niente. Più niente. Ora non c’è più chi chiede, chi compra, chi passa, chi si ferma in doppia fila, chi impreca e chi fa imprecare. Fine delle parole, fine delle azioni. Silenzio. Quell’angolo di città è, ora, un angolo morto.

Le edicole hanno segnato la strada. Prima i giornali e poi i libri. Succederà così anche con le librerie. Se non facciamo qualcosa, ci ritroveremo con le città piene di gente che corre e che non parla (tranne che con il proprio cellulare!). Ci ritroveremo pieni di parole senza memoria, svolazzanti nell’etereo cloud. Parole su cui non si riflette, che si dicono, si ridicono, si dimenticano, vengono ascoltate di nuovo… una società dell’oralità 2.0. O forse 3.0 (o 4.0?), se si contano le parole che verranno dette nel metaverso. Un’oralità così fluida da far paura a Socrate, che pure ne amava la duttilità, la piega imprevista con cui si percorre la scala del ragionamento. Oralità senza ragionamento; il predominio del cloud: ci ritroveremo (forse, ma speriamo di no) senza memoria, svuotati, presentificati. Se non stiamo attenti, noi, i nostri libri ce li andremo a leggere nel metaverso. Non ci sarà neppure bisogno di incendiarli. Anzi, no, non fatelo: il metaverso è green, è contro l’emissione di gas ad effetto serra. Senza dire, poi, che nel metaverso dalle basse temperature ci si difende in un lampo – in un colpo di mouse.

Si può ancora scegliere? Si può sempre scegliere. Il legno storto ci si prova a raddrizzarlo fino all’ultimo, ma prima è flessibile, poi, di giorno in giorno, si fa sempre più coriaceo e più duro. Inventiamoci qualcosa di nuovo. Una fiammella, un segnale. Una cosa che, anche se proprio nuova non è, possa rinnovarci: facciamo nascere in ogni libreria una scuola di lettura. Nelle librerie indipendenti, quelle già pericolanti, che portano un nome e un cognome, e nelle grandi librerie di catena che ancora veleggiano sicure di non dover mai calare le scialuppe a mare. Una scuola di lettura, che sia organizzata negli orari più comodi, non esoterica, non carbonara, non saccente. Una scuola di lettura che prenda in mano i libri e che li faccia prendere in mano e sfogliare da tutti i suoi adepti e, con pazienza, perfino da quelli che non vogliono saperne. Una scuola di lettura senza matita rossa e blu, senza docenti, senza discenti. Una scuola di lettura che sia fatta con chi si sederà su quella sedia, a quell’ora, quel giorno – e che magari spieghi a tutti gli altri, sui social, quanto sia importante e utile e bello essere lì e non altrove. Una scuola di lettura che abbia rispetto per il tempo, che ci ridia tempo (“Leggere?”, ti dicono i non-lettori, “quanto mi piacerebbe leggere! ma non ho tempo, non ho mai tempo…”). Una scuola che ci rieduchi a prenderci un’ora intera, senza le interruzioni dei bip – come durante un concerto, come a teatro, come ormai non accade più né a scuola, né a tavola, né a una conferenza, né nei nostri momenti più sacri, se pure ancora qualcosa di sacro ci resta e forse anche e proprio perché ce ne resta troppo poco.| [27.12.2022 | stefano.termanini@stefanotermaninieditore.it]

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